
TRAMA
Un giovane poliziotto, He Zhiwu, numero di matricola 223, abbandonato dalla sua fidanzata, incontra e si innamora di una misteriosa donna dalla parrucca bionda, implicata in un traffico di droga.
RECENSIONI
«Trouver une langue» scriveva Rimbaud quando ancora sperava di poter sovvertire le strutture del mondo fenomenico usando la poesia. Wittgenstein, più compassato, ci spiega che ogni gioco linguistico implica una forma di vita e viceversa. Essere autori significa più o meno questo: inventare un linguaggio nuovo e, con esso, un mondo che prima non c'era. Negli anni '90 Wong Kar-wai ha creato uno dei mondi cinematografici più nuovi, personali e - per una generazione almeno di cinefili - identitari. Avendo a preludio pellicole già precisamente caratterizzate come Days of being wild o As tears go by, il mondo di Kar-wai sviluppa la piena potenzialità tra Hong Kong Express - con il suo complemento Angeli perduti - e Happy together, i quali impongono l'autore come darling boy di festival e rassegne europee. Poi ci sarà In the mood for love, un film monade, ma è un'altra storia.
Quali sono i fonemi, la grammatica, le strutture della lingua di Wong Kar-wai, che si manifesta irruente come le pennate di chitarra iniziali di Dreams dei Cranberries? Innanzitutto, in senso più stretto, lo stile registico è inconfondibile. I due direttori della fotografia (i veterani Christopher Doyle e Andrew Lau) sono impegnati in un tour de force misto di improvvisazione - Kar-wai, come il suo idolo Godard, gira senza sceneggiatura e, in questo caso, senza permessi nei quartieri più malfamati di Hong Kong - e stilizzazione. Camere a mano, timelapse, i famosi ralenti trademark KW, freeze frame e l'incorporamento del videoclip sia nel montaggio cinetico (quasi sempre) che nella lettera (spesso, soprattutto nel secondo episodio) sono alcuni degli espedienti più evidenti. Il tempo e lo spazio ne escono frantumati, rimessi in pari con il ritmo cittadino, e ricomposti in una struttura a flashback e incastri doppi. Se il senso dell'operazione è ottenere un immaginario (un mondo) si tratta di un mondo interamente metropolitano. Pochi registi hanno sentito l'attrazione della natura e degli spazi aperti meno di Wong Kar-wai, le cui storie non potrebbero accadere fuori da una metropoli e da una metropoli asiatica, nello specifico. Ci troviamo in una Hong Kong noir notturna e piovosa, anonima e atomizzante, composta quasi esclusivamente da non luoghi, una metropoli dai colori innaturali (blu livido, oro, grigio, rosso fuoco o arancione) che offre a personaggi sradicati la causa dello sradicamento e la facilità agli incontri che potrebbero, in una momentanea tangenza di ellissi, sospenderlo.
Poliziotto 223 (Takeshi Kaneshiro) addirittura sfiora territori morettiani quando telefona serialmente a amici e fidanzatine della scuola dell'obbligo. C'è uno scarto comico - e postmoderno - molto evidente in tutti i quattro protagonisti che posano a eroi hard boiled (un po' come Woody Allen posava a Humphrey Bogart) con le loro caratterizzazioni archetipiche (il poliziotto, la femme fatale), i loro aforismi struggenti e laconici, la costante voice over, le rime interne che generano, l'aura da outcast e beautiful losers eppure finiscono per parlare con i cerca persone, le lattine di ananas, i pupazzi di peluche perché sono solo dei teneroni assolutamente fallimentari nei loro maldestri tentativi di cinismo e fatalismo. Inoltre, come nota Barthes a proposito della figura dell'innamorato, essi sono "in preda ai segni" e li cercano dappertutto, anche irrazionalmente negli oggetti inanimati. È in particolare paradigmatica la scena del "rapimento" della bambina da parte della "dura" narcotrafficante in parrucca e occhiali scuri (Brigitte Lin, passata direttamente all'immaginario collettivo per un ruolo in cui è irriconoscibile) risolto in una gigantesca coppa gelato. Sono storie di carenze affettive e dei modi non canonici in cui si può provare a colmarle: con la cura (che sconfina nello stalking Améliesco e nell'invasione nel secondo episodio) o nell'incontro casuale ma necessario di due esseri umani spezzati che non fanno l'amore ma condividono una stanza d'albergo all'alba. Il romanticismo di Kar-wai è anche nei finali lasciati aperti, nel voler lasciare gli incontri sospesi al punto culminante dopo il quale - è una legge fisica - non può che seguire una discesa.
Hong Kong Express è stato girato come un side project durante le pause delle riprese del kolossal wuxia Ashes of time, in 28 giorni. È curioso che, se il progetto primario è ora il film più dimenticato del suo autore, Hong Kong Express è divenuto uno dei massimi cult anni '90 e una punta di diamante del cinema peri-cinese che in quegli anni ha imposto due generazioni di maestri quali Tsai Ming-Liang, Edward Yang, John Woo e Hou Hsiao-Hsien. Ci sono svariate ragioni, anche geopolitiche, per questa wave ma colpisce come, avendo ognuno uno stile molto personale e non assimilabile, tutti ruotino magneticamente attorno alla metropoli (sia essa Hong Kong o Taipei) e ai suoi tipi umani compiendo il lavoro edile in termini di immaginario che, per esempio, la nouvelle vague originaria aveva articolato su Parigi. C'è una tensione fortissima tra il film e la sua città: un senso di appartenenza quasi fisico, carnale e insieme una costante pulsione escapista. I personaggi di Kar-wai, come il famoso uccello godardiano con una zampa sola costretto a restare sempre in movimento, sono nomadi fisici e mentali. Il fantasma onnipresente dell'altrove trova un precipitato nella geniale colonna sonora, nelle canzoni. La ricorrenza della parola "dream" nella versione di Faye Wong, anche attrice, di Dreams come in California dreaming dei Mamas & Papas che da sola fa la trama del secondo blocco. E la ricorrenza di una Giamaica della mente, tanto incongrua da farsi pura figura contrappuntistica dell'esotismo, si manifesta nel loop di Things in life di Dennis Brown. Sono, come detto, tutte scene-videoclip. Così anche la sequenza - una delle più erotiche di sempre - ritmata da What difference a day makes di Dinah Washington quando Tony Leung e la sua amante giocano con gli aeroplanini in una stanza torrida che grida tropici. La sicurezza degli oggetti, appunto. Hong Kong Express è un film bizzarramente, teneramente feticista in cui gli oggetti quotidiani - dell'alienata quotidianità urbana - assumono proporzioni da pensiero magico. Basta un modellino Alitalia ed è subito fuga baudelairiana nell'altrove.
In questa fase poetica a Wong Kar-wai interessano gli incontri, al massimo i viaggi (Happy Together; forse il finale della storia di Poliziotto 663 e Faye?), non le biografie che prevedono una linearità, una costanza, una stanzialità dello stare nel mondo. Poi verrà In the mood for love che è sia incontro che biografia, benché tutta al negativo (ciò che sarebbe potuto essere e non è stato). Gli incontri si fanno di momenti stellari, incantati, fuori dallo spaziotempo e liberi dalla legge di gravità. Nel film pendant Angeli perduti, è giustamente divenuta iconica la corsa in moto e il volto del protagonista trasfigurato nell'epifania. In Hong Kong Express l'incontro al bar - altro topos noir - tra l'innamorato abbandonato e la trafficante truffata, tra due individui rovinati, in cui i due non riescono a intendersi a parole ma si tengono compagnia e si confortano vicendevolmente, è un altro esempio della sensibilità "francese" del regista cinese, se è francese - da Baudelaire a Rohmer - la teoretica dell'incontro tra sconosciuti e la sua celebrazione autonoma, senza screditarlo a surrogato di intrecci più durevoli e sensati. Gli incontri necessitano luoghi; questi luoghi sono i naturali crocevia emotivi di una città. C'è tutta una topografia fatta di mercati, locali, stazioni della metropolitana che si anima quando avviene un contatto, proprio come lo sfioramento casuale iniziale dei due protagonisti nella folla apre il film con "un brivido". Il fast food Midnight Express nel malfamato quartiere Lang Kwai Fong, gestito da un improbabile Cupido, è lo snodo dei piccoli amori, l'ombelico del mondo a misura di disadattato costruito da Kar-wai per il suo immaginario, la sua città. Lontano dalla perfezione e dal controllo di In the mood for love, Hong Kong Express è un film pieno di vita, di entusiasmo, di slanci - e di immagini. È un film - come tutto il suo cinema - per romantici inguaribili. Gli interessi di Kar-wai sono sempre gli stessi: l'amore, la solitudine, la felicità, il fato, il tempismo e i loro contrari, i loro intrecci, i loro rapporti interni di dipendenza e opposizione. Se siamo anche noi romantici inguaribili e quindi mitomani, nel mondo di Wong finiremo per andare a abitare, emulando i protagonisti con effetto Werther. Ancora viene voglia, in morte di un amore, di controllare la data di scadenza sul cibo in scatola o fare una corsa perché il corpo perda tutti i liquidi e non ne restino per le lacrime oppure indossare impermeabile e occhiali scuri, per prudenza. E attaccare bottone in un club domandando: «do you like pineapple?».

Il primo episodio è ostentatamente autorale, multiforme con più programmaticità che estro, insistito nell’uso della macchina da presa a spalla, del ralenti, del montaggio interno, dei soggetti “off”. Alla ricerca di punti d’inquadratura e raccordi poco ortodossi, lambisce le rive straniate della nouvelle vague affollandole di stilemi da contemporaneo meltin’ pot cinematografico con soundtrack multietnico (viene in mente l’Irma Vep di Olivier Assayas che, infatti, ammira Wong Kar-Wai). È con il magnifico secondo episodio, variazione su tema alla Hal Hartley, che ci s’accorge anche del talento di scrittura e direzione degli attori, nel momento in cui l’esibizionismo tecnico/espressivo si dirada e lascia respirare il racconto a tal punto da ammantare, nei propri modi noir con voce narrante, anche il capitolo precedente: entrambi gli episodi, infine, sono all’insegna delle scadenze irrinunciabili, del caso/destino che incontra e separa, degli amori perduti, dei sofferti mutamenti indotti da affascinanti donne fatali (la poco convincente Brigitte Lin, in parrucca bionda e occhiali da sole, del primo episodio) e femmine dolcissime (l’estrosa e sorprendente cameriera Faye Wong): emblemi femminili ineluttabilmente misteriosi e inafferrabili. Anche gli oggetti partecipano attivamente al balletto delle tracce sentimentali, fra case e indumenti che piangono acqua, bizzarri colloqui (il poliziotto conversa con le cose), cambi di divisa che segna(la)no mutamenti di destinazione. Le molteplici suggestioni offerte da questo secondo racconto si lasciano puntellare da tocchi di classe figurativi ammirevoli: i giochi di specchi, l’incontro di profili delle figure speculari (lei, non a fuoco, lontana ma avvicinata dalla prospettiva), il nascondino a casa di lui, quel fotogramma con la camicia appesa ad asciugare e sullo sfondo il passaggio di un aereo. Girato, a basso costo, nei due mesi di sospensione della produzione del travagliato Ashes of Time.
