Drammatico, Focus, Recensione

IN THE MOOD FOR LOVE

Titolo OriginaleHuāyàng niánhuá / Faa yeung nin wa
NazioneHong Kong
Anno Produzione2000
Durata98'
Sceneggiatura
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Chow e Li-zhen si trasferiscono in appartamenti adiacenti. Quando scoprono che i rispettivi coniugi li tradiscono l’uno con la moglie dell’altra inizieranno a frequentarsi sempre più spesso, immersi nella Hong Kong degli anni ’60, cercando paradossalmente di non destare sospetti con gli invadenti padroni di casa, sognando una rottura che li porti via insieme.

RECENSIONI

Torna in sala, a distanza di oltre vent'anni dalla prima distribuzione, il film che per una generazione fu momento epifanico, rito iniziatico e testo sacro inerente quelle cose che - se non coincidono - spesso si sovrappongono: la formazione intellettuale, artistica, cinematografica e l'educazione sentimentale. Film archetipo, che pare emerso già compiuto, blocco unico, per offrire nel linguaggio universale del desiderio una risposta (uno scorcio di risposta) alla domanda eterna "di cosa parliamo, quando parliamo d'amore?", e che tale rimarrà se anche si estinguesse la specie umana ma rimanesse in funzione un proiettore, In the mood for love è insieme film del suo tempo, del suo anno, il 2000. Si presenta come capolavoro, non plus ultra, punto d'arrivo e fatto nuovo, isolato di uno degli autori simbolo e sinonimo di anni novanta al cinema, Wong Kar-Wai che, appoggiato al crinale tra le euforiche, irrequiete, torbide attese millenaristiche e il cominciare di un decennio depresso di riflusso, abbandona gli elementi formali zeitgeist (l'accorpamento del linguaggio videoclip, la camera a mano) per entrare nel nuovo millennio con un'opera programmaticamente classica, fuori dal tempo. Anche in questo senso In the mood for love fu rito iniziatico, segno e psicopompo dell'ingresso in un'età - se non proprio adulta - altra. Vent'anni dopo ci ritroviamo in un sala cinematografica come i moschettieri di Dumas e ci accorgiamo, per dirla con David Bowie, che «nothing has changed / and everything has changed». Se non troviamo quasi tracce del mondo di allora nel mondo esteriore che osserviamo, In the mood for love è lo stesso diamante e continua a rigenerarsi immutato e fiorente come il bastone di Tannhauser, sempre esorbitando rispetto a ciò che finora ci ha detto e continuando a rispondere alla stessa, eterna domanda apparendoci fatto ora o fatto da sempre.

Scrive Josip Brodskij nell'introduzione a un altro testo che, fin dal titolo, implora una risposta all'identica domanda, La verità, vi prego, sull'amore, di Wystan Hugh Auden: «I temi di queste poesie sono l’amore e la disonestà – i due poli tra i quali ci siamo trovati a soggiornare nel nostro secolo, pronti a gloriarci della loro occasionale divergenza ma bravissimi, anche quando siamo sfortunati, a conciliarli tra loro, a fonderli insieme». I protagonisti (Tony Leung e Maggie Cheung, belli e bravi come non è di questo mondo) declinano l'onestà nel dovere, nell'abnegazione, nell'automortificazione: occupano letteralmente tutto il film ma paradossalmente si identificano al negativo come marito e moglie di. I loro ruoli e vicende esistono e si attivano in relazione speculare a figure completamente assenti e mai viste in viso, mai incarnate, alla cui superpresenza reagiscono. Si ripetono come un mantra o una formula magica che spezzi la malia del desiderio «noi non dobbiamo essere come loro», una frase che ha come perni una negazione e l'ausiliare "dovere". Se tutto il film è una danza tra le forze contrarie del dover essere, delle convenzioni, della morale e quelle dell'amore, dell'attrazione, del desiderio è necessario il massimo grado di coreografia perché esso resti, appunto, una performance stilizzata, allusiva, che sublima in cento "tradimenti" per procura (gli appuntamenti, i pranzi, il romanzo wuxia a quattro mani, il camminare unisoni: ovunque qualcosa si intreccia c'è tradimento del peso del mondo) l'interdetto sulla consumazione dell'atto sessuale, sublimando il coito nella cospirazione. Li osserviamo come guarderemmo le articolatissime danze di corteggiamento degli uccelli del paradiso, i loro abiti stupendi come livree nuziali. In particolare Maggie Cheung indossa un cheongsam diverso per scena - ne furono cuciti quarantasei, non tutti utilizzati - e un make up complessissimo che necessitava cinque ore ogni giorno di ripresa. Lei, silenziosa e trattenuta al punto che i sentimenti le si leggono nelle smorfie o in certi sguardi muti o nei momenti di abbandono, quando sono soli e i corpi si lasciano andare, grazie agli abiti si fa segno loquace e presenza atmosferica: non soltanto si lega all'ambiente, allo sfondo ma lo rivolta, esprime le emozioni represse, cambia la temperatura, la luce, l'umidità delle scene. Se il tema portante del film è il rapporto ambivalente tra costrizione e espressione e come lo stesso gesto, lo stesso oggetto possano veicolare entrambi, gli abiti fascianti, difficilissimi da indossare ne sono uno dei simboli più evidenti. E la danza rituale si svolge sulle note del valzer di Shigeru Umebayashi, già del film Yumeji e tema patetico, archetipico nel suo ripartire sempre uguale, della voce eterna dello struggimento e del desiderio. Un altro rispondere, più preciso perché non usa parole, alla domanda.

Il titolo originale cantonese, Faa yeung nin wa, significa appunto "L'età della fioritura", la primavera, stagione dell'amore e delle rivoluzioni. Se si triangola con il titolo internazionale, ispirato dalla cover di Brian Ferry del celebre standard, che suggerisce la disposizione d'animo avventurosa individuale condizione dell'amore e con quello del romanzo breve di Liu Yichang cui il film è liberamente ispirato che dice l'innesco ("Un incontro") abbiamo già una prima risposta a proposito degli elementi necessari alla costruzione di un amore. Se non che le vicende di Hong Kong 1962 sono prefigurate dall'apologo nel cartello che apre il film: «fu un faccia a faccia imbarazzante, lei, sia pure con pudore, gli diede l'occasione di avvicinarsi, ma a lui mancò il coraggio. E allora lei, voltandogli le spalle, se ne andò via». Non mancò niente se non il coraggio, gesto, il saper/voler prendere, il saper/voler voltare le spalle al mondo. La rigorosissima ricostruzione d'epoca, realizzata andando a girare a Bangkok perché quella città era completamente scomparsa dove era stata, serve a rigenerare l'atmosfera respirata dal regista al suo arrivo, cinquenne, a Hong Kong e a definire nei minimi dettagli l'acquario del quale i personaggi sono prigionieri. Come la scenografia, tutti gli elementi concorrono alla mappa (al territorio che l'amore, se fosse liberato, potrebbe percorrere in catene di libere associazioni) e alla gabbia. Kar-Wai, come detto, si libera di estetica videoclip, luci naturali e camera a mano ed entra nel secondo millennio con la massima stilizzazione, il massimo del formalismo, della rigida disposizione dello spazio filmico che risponda alle posture, tanto corporee quanto esistenziali, dei due (non) amanti: carrelli, dissolvenze al nero, movimenti antinaturalistici, dettagli ravvicinatissimi e soprattutto ralenti, trademark del regista capace, caso quasi unico, di non farli risultare stucchevoli e melensi ma solo sensuali e incantati. Il montaggio ellittico, per cui molte scene furono girate e poi omesse, serve altrettanto a porre la perfezione di In the mood for love sotto i segni della coreografia e della rarefazione. L'ispirazione, esplicitata dal regista, viene dall'organizzazione di spazio e tempo filmici nelle opere di Bresson e Antonioni. Eppure non c'è nulla del rigore severo dei due maestri. Sotto la struttura di vetro e acciaio si agita un mondo purpureo, lussureggiante, dolciastro e esplosivo di rituali di pollinazione e putrefazione come in una serra tropicale. Sotto i gesti trattenuti è sempre leggibile la passione scaturita dall'incontro. In compenso Kar-Wai figlio di Godard e della nouvelle vague continua a girare senza sceneggiatura, improvvisando sul set. Stavolta però non l'avremmo mai detto, tanto tutto appare cesellato verso la necessità.

Una delle grandi intuizioni di Marcel Proust a proposito dell'amore è il suo legame consustanziale con lo spazio e il tempo. Tanto i luoghi che abbiamo occupato insieme alla persona che amiamo si incendiano nel mentre e trattengono per sempre una luminescenza, così scale, camere, strade, tavole, taxi di una Hong Kong ostile, le cui opprimenti convenzioni sociali incombono mortifere, vengono percorse da sguardi, sfioramenti, posture reciproche, esitazioni - soprattutto le esitazioni, continue, di Cheung e Leung sono il primo dei modi in cui la verità dei loro corpi cerca di prendere il sopravvento sul super io - e prendono vita. I toni tenui seppia/ocra/crema virano al vermiglio, al viola, al film rosso fuoco. Separati dal muro che divide i rispettivi appartamenti i due innamorati si voltano inconsapevolmente all'unisono e finiscono per guardarsi attraverso: una metafora semplice, un'immagine potentissima, straziante. Tuttavia la seconda dimensione temporale è ancora più esiziale se, dopo la separazione, i due cercano di tornare a infestare i luoghi dove si manifestò la possibilità dell'amore ma, passata l'occasione, il kairos, nel dopo-amore lo fanno da fantasmi revenant, definitivamente senza corpo. «Quell'epoca è passata». Parlare d'amore è sempre parlare di tempo perciò la chiosa perfetta per il deserto che si annuncia al ritorno, qualche anno dopo, nel sottofinale si trova nel testo definitivo delle qualità fisiche, metafisiche e mistiche del tempo, i Quattro quartetti di T.S. Eliot: «Eco di passi nella memoria giù per il corridoio / che non prendemmo verso la porta / che non aprimmo mai / nel giardino delle rose. Eco / delle mie parole, così, nella vostra mente. Ma a che fine / disturbando la polvere su una coppa di foglie / io non so.»

«Certe cose succedono così»: quando finalmente i due ammettono di essersi reciprocamente innamorati e lo dichiarano, Mr. Chow proferisce questa verità a proposito dell'amore, una delle poche possibili. Come in Breve incontro di David Lean, archetipo e pietra miliare e riferimento obbligato per ogni film a tema, ciò che accade soltanto nella mente (e quindi in uno spazio-tempo non costretto da limiti fisici) può oltrepassare smisuratamente in intensità ciò che invece, dovendo confrontarsi continuamente con i limiti del corpo (del mondo), non riesce a eccedere fino a raggiungere il livello del proprio desiderio. Mrs. Chan e Mr. Chow prima si incrociano, poi cominciano a voltarsi, si incontrano, complici il cibo, la prossimità, poi si confrontano a proposito dei coniugi fedifraghi. Comincia un gioco di sospetti, sondaggi e controlli incrociati che diventa messinscena, mimic, psicodramma. Mentre consapevolmente impegnati e compresissimi nell'indagine, cominciano all'inizio - forse - senza averne piena coscienza a preoccuparsi l'uno dell'altro, si curano, si consolano. La complicità si salda all'attrazione e diventa bisogno. Certe cose succedono così. Un altro riferimento dichiarato da Wong Kar-Wai è Vertigo di Alfred Hitchcock. Non solo per il rapporto tra l'amore e il doppio, lo specchio ma anche - fa notare acutamente il regista - per un lato morboso che passa totalmente sottotraccia. Tony Leung, come James Stewart, è tanto gentile, timido e ha la faccia da bravo ragazzo; i due sono così palesemente il contraltare buono e innocente e tradito alla coppia di amanti extra-legem che non registriamo la stranezza e la perversione dei loro re-enactment al ristorante o per strada.

Due decenni fa In the mood for love ci ha rivelato cosa sono - come si fanno, di cosa sono fatti - il cinema e l'amore, che estenuante lavoro di precisione comportano e contemporaneamente quanto sono volatili, fragili, impalpabili. Alla fine le strade divergono: il finale perfetto (per il cinema) è il finale più sbagliato (per l'amore). Nel tempo purgatoriale, nell'esilio da vecchio marinaio coleridgiano nella Morte-in-Vita, nel dopo-storia, nella desertificazione irreversibile del giardino delle rose Tony Leung raggiunge l'antica capitale Khmer di Angkor e affida il suo segreto all'anfratto di una colonna per poi sigillarlo col fango. Lo osservano ieratici, indifferenti, distanti un monaco e lo sconfinato mondo pietrificato e monumentale di una città morta da secoli. Tradire l'occasione, l'amore della vita equivale a tradire la vita. Come scrive Kavafis, «sciupando la tua vita in questo angolo discreto tu l'hai sciupata in tutto il mondo». Lo spazio di Angkor Wat è infinito e infinitamente vuoto, viene ripreso per inquadrature che lo sezionano e disarticolano, lo fanno puro spazio metafisico, mischiano il giorno e i suoi angoli netti e penombre e un crepuscolo blu: non più i toni pastosi, da brodo d'ambra, delle immagini di Hong Kong; qui è tutto freddo, preciso e muto, splendido ma insensato. «Quando ripensa a quegli anni lontani, è come se li guardasse attraverso un vetro impolverato: il passato è qualcosa che può vedere, ma non può toccare; e tutto ciò che vede è sfocato, indistinto». Prima del cartello finale, accade un miracolo inutile. Un film costruito con una precisione, un controllo sovrumani sui moti centripeti, sulla costruzione di griglie, sul trattenere e reprimere per dare la forma esatta al non voler prendere, al non voler essere come loro dei protagonisti ha un tempo supplementare. La camera si sbriglia spostandosi vertiginosamente, percorre per diagonali aeree lo spazio sconfinato di una città gigantesca che però è morta, è troppo tardi. Il parossismo della forma è servito ad alimentare una gigantesca deflagrazione che però è attutita come un'esplosione atomica sottomarina. La tensione tra la musica patetica a modo di voce intima, di eruzione del subconscio e le immagini dal tono impassibile ne fanno uno dei finali più potenti, emozionanti dell'intera storia del cinema. Detto il segreto all'albero, liberato il peso, rimane la superficie sconfinata di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato e il deserto che ne ha preso il posto. Se la domanda esistenziale a proposito dell'essenza dell'amore continuerà a evadere - per fortuna - qualsiasi volontà di dominio e precisazione, In the mood for love ci mostra al massimo grado di sensibilità il negativo fotografico e un diagramma di Muybridge.
Avremo sempre bisogno di (essere) In the mood for love.

Cullata da brani musicali ipnotici e reiterati, romantici e struggenti, è una storia d’amore iscritta nell’Eternità per la segretezza in cui (non) è consumata, piena di silenzi anche nei confronti dello spettatore. L’eternità di La Signora della Porta Accanto (Truffaut ovunque) è rappresentata anche dalla ripetizione infinita di luoghi e umori, quando solo i cheongsam indossati dalla meravigliosa Maggie Cheung cambiano; un amore per sempre sancito da un rito magico, con Tony Leung che non sussurra il suo segreto in un albero come vorrebbe la tradizione, ma nell’unico luogo immutabile nella Storia, il tempio cambogiano. Wong Kar-wai ha rincorso in tutti i suoi film immagini rallentate per vivisezionare e intensificare il rappresentato, cogliendone il volto dietro la maschera: le geometrie non sono casuali, gli interni sono ricorrenti e gli esterni simbolici (gli incontri per strada ripresi attraverso le sbarre), le inquadrature sono spesso interrotte da linee verticali che restituiscono la claustrofobia (delle prigioni in quattro mura, della difficoltà di carpire i sentimenti di due esseri che non si “incontrano”), si pongono con uno sguardo voyeuristico ma circoscritto da un oblò, oppure sfuocato dal riflesso di uno specchio sporco o appannato dal pianto. Anche il precedente Days of Being Wild era ambientato negli anni sessanta dell’apparenza rispettabile, con mélo di solitudine e casualità, pioggia incessante, inquadrature di orologi, colori espressivi e refrain del motivo musicale (là hawaiano, qui latino): è meraviglioso lo studio cromatico in rosso/verde come in Angeli Perduti, altra opera simile nella passione esaltata dal ralenti. È una delle più struggenti della storia del cinema l’idea espressiva che lega la celebrazione dell’immagine attraverso la diminuzione della sua frequenza, l’esplosione dei colori a rappresentare la complessità delle emozioni e il valzer di Shigeru Umebayashi che accompagna la straziante indecisione con un passo indietro per andare avanti.

In the mood for love fu film dell'anno della stagione 2000-2001, il primo film dell'anno della storia di Gli Spietati.
Qui alcuni estratti dalle nostre recensioni dell'epoca (novembre 2000):

«In due appartamenti confinanti, due coppie di coniugi, due tradimenti (incrociati), due storie d'amore extraconiugale. Ma anche due sessi (ovviamente!), due ambiti (quello pubblico, "politico", rappresentato tanto dalle vicende internazionali quanto dalle riunioni di amici e vicini, e quello privato, chiuso tra le pareti di una camera da letto), due culture (l'orientale e l'occidentale, rappresentate rispettivamente dalle canzoni cinesi e dal tango), due oggetti rivelatori (la borsetta e la cravatta), due luoghi principali dell'azione (Hong Kong, emblema di fedeltà, sempre in primo piano, ed il Giappone, simbolo di tradimento, mai mostrato direttamente), due livelli narrativi (la "realtà", o finzione di primo grado, ciò che effettivamente accade ai personaggi, e la "finzione" di secondo grado, lo psicodramma messo in scena dai due coniugi traditi, che tentano di immedesimarsi nei rispettivi rivali). La logica binaria caratterizza ogni filo del tessuto drammatico: In the mood for love è opposizione e simmetria, distinzione e fusione, ordine e disordine. Inizia con un doppio trasloco, rumoroso e caotico come l'universo al momento della Creazione, e termina nel silenzio secolare di un tempio in rovina, espressione di una serenità, di una separazione faticosamente conquistata. Tutto è destinato a ripetersi: il rapporto tra vicini è avviato da uno scambio di favori (una pentola a pressione portata dal Giappone e una pila di libri dati in prestito); il capo della protagonista disdice due appuntamenti erotici (con la moglie per stare con l'amante, poi viceversa); alla fine, entrambi i proprietari degli appartamenti contigui decidono di traslocare (all'inizio del film entrambi, in seguito al matrimonio di un figlio, avevano una camera pronta ad essere presa in affitto). E lo spettatore deve ripetere il percorso seguito dai personaggi nel tentativo di scoprire la verità sui rispettivi coniugi: deve cioè mettere insieme i tasselli del puzzle, confrontare gli indizi, verificare gli alibi, se vuole comprendere il significato di quello che sta vedendo. In fondo anche quello personaggio/spettatore (più in generale, opera/lettore) è allo stesso tempo un rapporto di opposizione e di congiunzione: da fronti opposti (lo schermo e la sala), devono collaborare per costruire il senso (uno dei possibili sensi) del film. Forse è per questo motivo che In the mood for love, affascinante ma alquanto arduo e dall'apparenza spesso fredda, cerebrale, risulta alla fine tanto stimolante: non parla solo di sé, parla di tutti i film che abbiamo visto, parla di noi. Possiamo non sentirci lusingati?»
Stefano Selleri

«Wong Kar-wai reinquadra tutto, pone una serie di ostacoli allo sguardo frammentandolo all'interno di inquadrature che rimbalzano da uno specchio all'altro, che incastrano volti e corpi - a volte brandelli di corpi - oggetti all'interno di figure plastiche che decostruiscono spazi e tempi filmici fino alla dispersione, in un continuo e infinito spostarsi di ogni punto di riferimento, muovendosi dentro spazi angusti, riesplorati ogni volta dietro l'opacità di un ricordo doloroso, attraverso lo smuoversi lento di due corpi incastrati nell'incertezza di una situazione delicata e fragile, a tratti ostile, pericolosa.
Incontri fugaci, come amanti colpevoli, per le strade piovose di una Hong Kong fragile e politicamente inquieta, senza che mai la luce del sole appaia a rischiarare, sempre soffocati da muri, corridoi, stanze, scale, uffici, notti, fumo che scorre lento e disperato, come il corpo sinuoso di Maggie Cheung che sfila e rallenta, sottolineato da musiche splendide, magari riuscendo a ricreare quel momento di epica austerità che tanti kolossal hollywoodiani ricercano ossessivamente cadendo immancabilmente nel ridicolo».
Stefano Trinchero

«Difficile parlare di un film come questo, gioiello lucente che non va appannato con il fiato, ma goduto ad occhi aperti e cuore spalancato».
Luca Pacilio