TRAMA
Il primo documentario di Terrence Malick è stato descritto dallo stesso regista come “uno dei miei più grandi sogni”. È un film collage (come Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio) che intende illustrare la nascita e la morte di un universo inesplorato. La storia dell’universo stesso, con immagini potenti, dal Big Bang all’era mesozoica attraverso il presente e oltre, basata su un progetto concepito decadi fa. Il film è stato girato in due versioni: una lunga con Cate Blanchett come narratrice e una versione di 40′ per l’Imax con Brad Pitt quale narratore.
RECENSIONI
PREMESSA - Questa recensione si riferisce alla versione lunga del film (35mm) e non a quella dal minutaggio ridotto (Imax).
SHINING THROUGH ALL TIME
«Lo Spirito indistruttibile saluta gli indistruttibili! A voi svelo segreti senza nome, ineffabili, sopracelesti, che non possono essere compresi né dalle dominazioni, né dalle potenze, né dagli esseri inferiori, o dalla completa mescolanza, ma sono stati rivelati solo all'Ennoia dell'Immutabile». Nell'antichità, la dottrina segreta dello gnosticismo veniva introdotta da questa formula solenne ed è proprio con questa propensione iniziatica che occorrerà avvicinarsi a Voyage of Time, ancora una volta film allegorico alla stregua di The Tree of Life, To the Wonder e Knight of Cups. Con Song to Song, invece e come ho tentato di chiarire nell'apposita recensione, il discorso cambierà parzialmente rotta, giacché l'inclinazione allegorica non sarà più di tipo verticale (terrestre-sopraceleste) ma di matrice orizzontale (esclusivamente terrestre). In Voyage of Time, insomma, siamo ancora alle prese col dialogo tra il mondo (o il cosmo) e l'ultraterreno (o la divinità), al punto tale che il discorso allegorico sembra assumere carattere di sintesi definitiva e inequivocabile.
È un messaggio promozionale ermetico - ebbene sì, proprio un paradosso del genere - che Voyage of Time veicola con insostenibile, maestosa pedanteria. Si tratta di un film in cui, peraltro, si avverte sensibilmente il ristagno delle idee, la risacca di un pensiero che lambisce la rassegnazione, la resa aristocratica di fronte a un mondo che si riduce a grappolo di fruste figure retoriche (il bue squartato, il bambino abbandonato, la vecchia donna). Furto, rapina, sopraffazione, prepotenza: ecco il repertorio terreno che Malick snocciola davanti ai nostri occhi per gran parte del suo delirante "mondumentario". Il cosmo stesso, l'universo dominato dal caos, non fa altro che riprodurre un’ininterrotta variazione sul tema del conflitto tra luce e oscurità. La vita risiede nelle pulsazioni luminose, ovviamente, e un continuo anelito verso la luminosità ultraterrena attraversa ogni fotogramma.
Con ogni evidenza, la Madre a cui la voce implorante di Cate Blanchett si rivolge senza posa non è identificabile grossolanamente con la Natura (svarione commesso da quasi tutti i critici/recensori che hanno tentato di addomesticare il film), ma, in modo molto più preciso e appropriato, con la Luce, definita nel film come "Sorgente inesauribile, fiume senza fine, senza forma come una nuvola. Madre di tutto, fiamma vivente nascosta in ogni cosa". La natura, al contrario e in pieno accordo con la visione gnostica, è presentata nel film come entità che si divora solo per rinascere e perpetuarsi ciecamente. Ecco perché in Voyage of Time si susseguono senza soluzione di continuità vedute fastose e immagini di conflitto, squarci celesti e ritratti purgatoriali di condanna alla fatica, spiragli eterei e dettagli opprimenti sull'affanno di esistere. Non intendo soffermarmi sul travisamento che ha portato la critica a confondere scriteriatamente Natura e Luce (due dimensioni antitetiche nel pensiero gnostico abbracciato dall'ultimo Malick), mi basta accennare al fatto che questo equivoco denota l'ignoranza di una tradizione filosofico-religiosa antichissima, producendo la fatale impossibilità di entrare in sintonia con la poetica malickiana, quanto meno a partire da The Tree of Life.
Che cos'è, dunque, questa "luce d’amore" alla quale la voce di Cate Blanchett chiede accoratamente di non allontanarsi? Se, genericamente, è non solo lecito ma addirittura imprescindibile ravvisarne la natura divina ("O madre. Abisso di luce che contempli tutto. Fiammeggiante", sussurra la voce narrante), è piuttosto difficile resistere alla tentazione di ipotizzare una derivazione più circostanziata all’interno della tradizione gnostica, facendo specifico riferimento alla corrente valentiniana illustrata da Hans Jonas nel suo avvertitissimo studio del 1958 Lo gnosticismo: "Nelle altezze invisibili e senza nome c'era un perfetto Eone preesistente. Il suo nome è Primo-Principio, Progenitore e Abisso" (Hans Jonas, Lo gnosticismo, p. 172). Qui la parola chiave è "abisso", naturalmente, così come la chiara indicazione atemporale pronunciata dalla voce narrante nei primi secondi del film ("Madre. Camminavi con me allora. Nel silenzio. Prima che ci fosse un mondo. Prima della notte o del giorno. Sola nell’immobilità. Dove nulla esisteva"). Come la critica abbia potuto identificare nella natura questa entità materna che precede il mondo, il tempo e l'esistenza stessa resta un mistero che non ho affatto intenzione di sondare. Pare invece ovvio che questo Primo-Principio trascenda e sussuma sotto di sé qualsiasi determinazione di genere, quindi la sua declinazione femminile nel film di Malick non è particolarmente sorprendente né problematica: travalicando la differenziazione maschile/femminile, è evidentemente suscettibile di essere declinato in entrambi i generi. Tralasciando l'esposizione dettagliata dei fondamenti della dottrina valentiniana (Valentino, il fondatore della scuola, nacque in Egitto e fu educato ad Alessandria; insegnò a Roma all'incirca tra il 135 e il 160 d.C.), mi limito a rimandare i più volenterosi lettori allo splendido libro di Jonas per ulteriori approfondimenti.
Mette invece conto di rimarcare che, nel sistema di pensiero della gnosi valentiniana, l'Abisso genera una serie di emanazioni (o Eoni) che nel loro complesso vanno a costituire il Pleroma o Pienezza: "«Pleroma» è il termine tipo per la molteplicità totalmente dispiegata di caratteristiche divine, il cui numero ordinario è trenta, formanti una gerarchia e costituenti nel loro insieme il regno divino" (Hans Jonas, Lo gnosticismo, p. 173). Ora, l'ultimo eone femminile nella catena di emanazioni proveniente dall'abisso di luce si chiama Sophia. Ed è proprio Sophia, colpita dalla passione di contemplare direttamente il Primo-Principio nonostante la sua collocazione periferica (Sophia è l'ultimo e più giovane eone, quindi il più lontano dal Primo-Principio), a scatenare una sequenza di eventi precosmici che produrranno:
a) una crisi nel Pleroma;
b) la successiva restaurazione dell'armonia interna al Pleroma;
c) l'espulsione dal Pleroma della passione di Sophia;
d) l'oggettivazione di questa passione in un nuovo essere personale denominato Sophia inferiore;
e) l'origine della materia del cosmo e del mondo.
Esattamente tra l'espulsione dal Pleroma della passione di Sophia e l'origine della materia si colloca la sofferenza della Sophia inferiore, che, come abbiamo visto, altro non è che l'oggettivazione del desiderio di conoscenza concepito precedentemente da Sophia stessa e successivamente cacciato fuori dalla Pienezza.
Intrisa della passione originaria e condannata a restare sola fuori nell'oscurità esterna, la Sophia cacciata dal Pleroma è scossa da ogni specie di sofferenza: "In ciò essa ripete al suo livello la scala di emozioni che sua madre provò nel Pleroma, con la sola differenza che ora tali passioni assumono la forma di stati definitivi di essere e come tali possono diventare la sostanza del mondo. Tale sostanza dunque, psichica e materiale, non è altro che la forma estraniata da sé e decaduta dello Spirito, solidificata da atti in condizioni abituali e trasformata da processo interno in fatto esterno" (Hans Jonas, Lo gnosticismo, p. 177). Saranno proprio le emozioni provate dalla Sophia inferiore a divenire le sostanze di questo mondo, gli elementi: le emozioni si tramutano in materia. Ecco le principali emozioni destinate a solidificarsi, a materializzarsi: ""dolore", perché essa non poteva prendere possesso della luce; "timore", che oltre la luce anche la vita potesse abbandonarla; "confusione", in aggiunta alle altre; e tutte queste unite nella qualità fondamentale di "ignoranza" (essa stessa considerata come una «affezione»). E, come risultante, ancora un altro stato mentale: il "volgersi" (conversione) verso il Datore di Vita". A queste emozioni se ne aggiunge un'altra chiamata "riso", il cui corrispettivo materiale è la sostanza luminosa del sole e delle stelle: "Ora essa pianse e si angosciò perché era stata lasciata sola nella Tenebra e nel Vuoto; ora, considerandosi parte della Luce che l'aveva abbandonata, essa divenne allegra e sorridente; ora cadde di nuovo nel timore e altre volte essa era sconvolta e stordita" (Hans Jonas, Lo gnosticismo, p. 178).
Sebbene la cosmogonia valentiniana non si arresti qui, non occorre seguirla oltre poiché salta immediatamente agli occhi l'analogia tra la vicenda mitica appena riportata e ciò che ci dice apertamente il documentario cosmico di Malick. Che cosa inscena Voyage of Time, difatti, se non la dolorosa interrogazione di una voce femminile che si rivolge all'incorruttibile e inattingibile abisso datore di vita che risiede oltre il tempo, con le infinite sofferenze che il tempo stesso comporta? "Tempo. Distrugge, divora tutto. Che cosa dura? Come ti raggiungo? Tu, il bene verso cui tutte le cose aspirano. Oltre il tempo. Oltre la sofferenza", mormora la voce implorante di Cate Blanchett. Nella visione gnostica, conviene ricordarlo, il tempo si identifica con Kronos, il divenire, ed è una dimensione che appartiene esclusivamente al mondo della materia. Il Primo-Principio, al contrario, sta oltre il tempo, lo spazio e la materia. Ricordiamo le prime parole della voce narrante: "Madre. Camminavi con me allora. Nel silenzio. Prima che ci fosse un mondo. Prima della notte o del giorno. Sola nell’immobilità. Dove nulla esisteva". È esattamente in questa dimensione tra ciò che risiede prima di spazio-tempo-materia (l'Abisso di luce, il Pleroma) e le tragiche conseguenze dell'incidente originario (il cosmo, il mondo) che si situa la voce implorante di Voyage of Time.
Detto più semplicemente, la voce di Cate Blanchett che ascoltiamo per tutta la durata del viaggio non è altro che la voce intrisa di dolore, timore, confusione, ignoranza, riso e conversione della Sophia inferiore. Sono i suoi stati d'animo permeati dalle passioni di cui essa stessa è l'ipostasi (oggettivazione) a risuonare per tutto il film ("Madre. Dove sei? Dove sei andata? Ho paura. Piena di problemi. Un enigma per me stessa", ecco che cosa afferma questa voce nei primi minuti del film). Stati d'animo anche contraddittori: alla disperazione dell'abbandono si sostituisce talvolta l'allegria momentanea della contemplazione ("Così tanta gioia. Perché non sempre?"). Tocchiamo qui, in questa fugace giubilazione, uno dei punti più delicati della poetica gnostica di Malick: nonostante tutto, qualcosa di quella luce spirituale è rimasto imprigionato nel cosmo, decantandosi in questo mondo ("Una fiamma vivente nascosta in tutte le cose", la chiama la voce di Blanchett). Stare attenti, non si tratta di banale panteismo (la divinità che pervade la realtà in ogni sua parte), ma dell'esatto contrario: benché la realtà di questo mondo sia il risultato di un incidente degenerativo, qualcosa dell'elemento spirituale originario vi è filtrato e permane, seppur in forme celate. Questo elemento spirituale (o pneumatico, per meglio dire) non si identifica tuttavia con la materia tangibile: esso va cercato, scovato, snidato dentro di essa, guardando la materia stessa in controluce, in filigrana. E, soprattutto, non trapela agli occhi di tutti, ma solo a una cerchia ristretta di esseri umani (e ritroviamo qui il discorso della grazia di molte figure femminili che, riflettendo proprio questa facoltà spirituale, popolano l'universo malickiano).
Misuriamo qui, infine, tutta la distanza che separa la sensibilità gnostica dell'ultimo Malick dal cristianesimo tradizionale. Se per la religione cristiana la creazione è un atto divino che imprime all'umanità l'immagine stessa di Dio, per lo gnosticismo, al contrario, essa è il frutto di un incidente precosmico e pretemporale che ha prodotto conseguenze dolorose e catastrofiche. Detto altrimenti, per gli gnostici il mondo (nonché l'universo) è un gigantesco errore e non un atto divino che risplende della sua gloria ("Che cos'è questo mondo? Il bue squartato. Il bambino abbandonato. La ferita. La vecchia donna", sibila la voce di Sophia/Cate Blanchett). In questa dimensione terrena funestata dall'ignoranza, dal terrore e dalla cieca disperazione ("L'anima. Un desiderio. Un sogno. E noi non sappiamo niente. Ciechi", pronuncia Blanchett), la sola salvezza possibile consiste nell'inesausta ricerca di quella "fiamma vivente nascosta in tutte le cose", nella bruciante tensione verso un assoluto al di là del tempo e dello spazio, al di là dell'afflizione: "Vita. A te tutte le cose ritornano. Il ponte. La porta", dice Blanchett riecheggiando il finale di The Tree of Life coi suoi simbolici attraversamenti di soglia e il ponte che collegava virtualmente l'uomo e la fiamma divina. Fino a quella consumazione e conflagrazione finale (quasi un'ecpirosi stoica) in cui le particelle di luce sparpagliate nell'universo si raccolgono e si dirigono verso la loro sorgente, l'abisso di luce da cui si staccarono prima che il tempo avesse inizio: "Il tempo torna alla sua sorgente. Madre, prendo la tua mano. Non sogno più. Unita a te. Foglia al ramo, ramo all'albero. L'amore ci lega. Cosa vive in te non può morire. O vita! O Madre!".
POSTILLA - Visti i numerosi episodi di plagio o saccheggio indiscriminato che hanno colpito i miei precedenti interventi sulla stagione gnostica di Malick, chiedo gentilmente ai futuri pescatori di idee di citare le fonti utilizzate (ricordo che ho formulato in totale autonomia di pensiero l'associazione tra Malick e lo gnosticismo nell'ormai lontano 2011, come la recensione di The Tree of Life attesta incontrovertibilmente). Insomma, non solo rivendico la piena titolarità di questa ipotesi interpretativa (a conclusioni simili, sebbene non coincidenti, è giunto Philippe Fraisse, autore del pregevole studio Un jardin parmi les flammes. Le cinéma de Terrence Malick pubblicato nel 2015), ma invito apertamente chiunque si appropri di questa chiave di lettura, condividendola o meno, a esplicitarne l'origine. Una volta enunciate le idee sono un po' di tutti, è vero, ma quando si è spesa così tanta fatica a formularle in termini ragionati, il fatto che se ne dimentichi la derivazione (o, peggio, si ometta deliberatamente per assumersene i meriti) denota una negligenza che rasenta francamente la malafede.