
TRAMA
Una donna racconta di un uomo cui il compagno di scuola ha tolto il saluto, di un sacerdote che ha perso la fede, di un esercito in disfatta, di persone in cerca d’amore o pentite del dolore procurato.
RECENSIONI
Roy Andersson ha visto quest’umanità immersa nel silenzio, endemicamente fuori posto, rigorosamente a distanza, in cornici che la contengono ma non la comprendono, disperatamente buffa e pietosamente disperata, che maschera la consapevolezza della propria solitudine in comportamenti ritualistici senza convinzione. Tasselli che raramente sono sketch (il mancato saluto nazista, il prete cacciato dallo studio medico, il dentista stizzito), frammenti brevi, isolati o ripresi, appesi nel nulla dell’assurdità dell’esistenza, con un senso che, se non è diegetico, pittorico ("La fine di Hitler” di Kukryniksy) o retorico (il padre che uccide per l’onore della famiglia, la pena di morte), ambisce alla comunione per restituire l’infinitezza degli umori e stati umani. In modo inedito, Andersson sottrae sberleffi e aggiunge squarci di speranza (la donna alla stazione) o gioia (il ballo delle tre ragazze), tendendo lo sguardo su di un filo che va dall’incubo (la via crucis alla Ciprì e Maresco) al sogno (gli innamorati in volo), riducendo a medesima misura tutta l’umanità in vigenza del primo principio della termodinamica, dagli ultimi con esistenza arida al dittatore con sogni di grandezza. L’avventore nel bar, fra musica di Natale e incanto della neve che cade, ripete che tutto è “comunque” fantastico ma il cinema di Andersson, volente o nolente, rimanda sempre all’afflizione, per recitazioni convinte nel terrore, incerte della felicità, assenti: più della gratificazione sa raccontare l’assenza di Dio in un mondo mortale dove l’essere umano si rivolge alle lapidi. La scena che meglio rappresenta il film, allora, è quella finale: si ferma l’auto nel nulla, l’uomo apre il cofano ma non sa che fare, si guarda intorno di continuo ma non c’è nessuno.
