Focus, Recensione, Sala, Thriller

STRADE PERDUTE

Titolo OriginaleLost Highway
NazioneU.S.A.
Anno Produzione1997
Genere
Durata134'
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Fred è un musicista jazz convinto che sua moglie Renée lo stia tradendo: in seguito alla morte misteriosa della donna viene accusato d’omicidio, ma l’uomo non riesce a ricordare nessun dettaglio del crimine e finisce in prigione.
Pete è un meccanico invaghito della bella Alice, legata a Dick Laurent, un boss della mala.

RECENSIONI

Lynch riafferma il diritto all'allucinazione, al delirio in celluloide e scaglia contro gli spettatori questo oggetto pauroso e inafferrabile, un viaggio nelle tenebre della mente senza punti cardinali, un'opera che, nella sua sfrenata libertà immaginativa, segue un itinerario straordinariamente coerente.
Un concentrato di sospensione e angoscia  sono i primi quaranta minuti, di valore assoluto: la casa dei protagonisti, che non ha più niente di familiare o rassicurante, diviene un labirinto interiore minaccioso e oscuro. Gli spazi, inquadrati dal basso e quasi mai frontalmente, si fanno opprimenti: Fred annega in un'oscurità densa; le scene, separate da perentorie dissolvenze, si macchiano di indefinito; le parole stesse si intorbidiscono. Come in un Antonioni dark, personaggi, oggetti, ambienti sono proiezioni psicologiche non asservite alle logiche del racconto, presenze disciolte in una mescola indissolubile di narrazione e forma.


Fred Madison, sospettandone il tradimento, (forse) uccide la moglie Renée, ma non reggendo alle conseguenze del suo operato, si immagina un’altra vita: in questa fuga psicogena è un uomo più giovane che incontra Alice, una donna simile a Renée che, a differenza della moglie, lo desidera. Ma la paranoia e l’angoscia che attanagliano l'uomo fanno sì che anche questa vita alternativa diventi terrificante. Come dire che in Fred il (bi-)sogno prende forma e, confondendosi con la realtà, si traduce in un incubo materico: Pete, il giovane che prende il suo posto nella prigione, può rappresentare, dunque, una proiezione del marito tradito e assassino, la fuga di un'identità dal senso di colpa, una creazione onirica che evoca la giovinezza perduta. Ma anche, semplicemente (?), un'altra persona (un altro film?). Lynch non solo scardina la narrazione, ma sbriciola l'archetipo del Protagonista (e della femme fatale) e in questo turbine di identità polverizzate fa dell’inconscio, presentato con sfrontata letteralità (la scena con Mystery Man, durante la festa), l'unico effetto speciale.


È proprio lungo la sottile linea grigia che divide Vero e Desiderio che la trama si sfalda, la coerenza si sbrindella, i significati appassiscono, si tocca il Mistero. Le strade si perdono, ogni spettatore seguirà la propria e se il film si ricompone, pervenendo la fine al momento dell'inizio - «Dick Laurent is dead», l'asfalto di una corsa notturna, le strisce della mezzeria illuminate dai fari, I’m deranged, la traccia 16 di Outside di David Bowie che sembra scritta apposta per il film (col senno di poi: i titoli di coda di un decennio) - il puzzle manca sempre di qualche pezzo: a differenza di Mulholland Drive (nota a posteriori), dove i livelli di realtà e sogno sono ben delineabili, qui le dimensioni si sovrappongono a tratti, si infettano vicendevolmente. E se il suono è potentemente evocativo (sul sound design dei film di Lynch c’è una letteratura), l'immagine è pura, tagliente come una lama (mai più così: è il vertice figurativo del regista), trasudando un'atmosfera di oscura minaccia, fatta di miraggi e di ombre, in cui non si intrecciano diversi livelli temporali, ma tutti gli eventi paiono collocarsi in un continuo accadere.
Nessun finale conciliatorio o volgarmente risolutore dunque, solo un groviglio di interrogativi appuntiti nel pugno: il senso definitivo latita, lo si sfiora soltanto, svapora in un istante come il lucore di una sigaretta nel buio.

Nota - Sul film due sono i testi da leggere:
1) la sceneggiatura (pubblicata anche in italiano da Bompiani), all'inizio della quale Lynch definisce Lost Highway
- un horror noir del ventesimo secolo

- un'indagine di estrema potenza visiva sulle crisi di identità parallele
- un mondo dove il tempo è pericolosamente fuori controllo
- una corsa terrificante lungo le strade perdute.
2) Il saggio di David Foster Wallace David Lynch Kee
ps His Head.

 

Fari nella notte illuminano la highway sulle note di I'm deranged di David Bowie. Prima strada: thriller ad alto tasso di brividi e sensazioni angoscianti all'interno di un appartamento. Un magistrale saggio di paura, dove Lynch vira la fotografia su tonalità viola/marroni, muove l'obiettivo per aumentare l'affannosa attesa, sottolineandola con i silenzi, le dissolvenze, inquadrature instabili che fomentano i dubbi. Non ci sono appigli, né eroi per cui parteggiare. Lynch apre porte sul buio e l'ignoto, attraversando corridoi immersi nell'ombra. Nei crediti è anche sound creator, colpisce allo stomaco con curati effetti sonori e di montaggio, raggiungendo l'apice quando fa urlare in modo straziante il sax di Bill Pullman. Seconda strada: cambio improvviso di corsia e inversione di marcia, spiazzante rimescolamento delle carte in tavola, altro personaggio, altra storia. La fotografia è più solare e il tono più scherzoso, si arriva persino ad inscenare una divertente "tarantinata", quella con Robert Loggia che se la prende con un pirata della strada. La trama è meno interessante e, soprattutto, diventa irritante la voluta assenza di chiavi di lettura razionali: Lynch usa a piacere il fast forward e il rewind (l'inquietante "fantasma", figura aliena come tante del suo immaginario, è il simbolo del Male che usa gli uomini come pedine, ma potrebbe rappresentare anche il regista), sconvolge il Tempo e lo Spazio per arrivare ad una soluzione finale circolare che non dissolva i dubbi a suon di ellissi e laconicità. Lo spettatore è lasciato in caduta libera nel baratro dell'assurdo, in un folle labirinto dove deve ricostruire il puzzle con dei frammenti che si perdono…per strada (anche oltre la volontà dell'autore). Prendiamo una terza strada, una congiunzione anulare che svela dimensioni parallele, specchi, sdoppiamenti di personalità, "donne che vissero due volte", Detour, ubiquità e mutazioni fisiche (espressioni di fughe psicogene dal male interiore). Ormai è certo che questo horror trascendente e simbolico segua le tracce del noir. Il gioco a scatole cinesi, in dirittura d'arrivo, dà il via ad altre interpretazioni ed allegorie, non finisce mai. È la soggettiva malata di uno schizofrenico? L'incubo creato da un demone? Un'allegoria disancorata dal realismo? Abbiamo perso la strada, ma le allucinazioni durante il viaggio hanno stimolato riflessioni geniali, esperienze contorte, perverse (straordinario l'amplesso alla luce dei fari), straniate, in ossimoro: a volte non si sa veramente se ridere o atterrirsi.