TRAMA
Alla soglia dei novant’anni Lucky tiene fede al suo nomignolo. Pur fumando un pacchetto di sigarette al giorno e bevendo alcolici, le sue diagnosi mediche sono impeccabili. Ma dopo una caduta comincia a temere la morte e la solitudine.
RECENSIONI
Ripetizione
Ci sono parecchi elementi nel film di John Carrol Lynch che fanno pensare al reale valore della ripetizione, o del ritorno. A ripetersi è Lucky, personaggio incarnato nel corpo in disfacimento di Harry Dean Stanton (lo script del film è interamente costruito sulla sua figura), che segue pedissequamente lo schema delle proprie abitudini quotidiane; si ripetono i cicli di nascita e morte dei saguari nel deserto, nel loro disfarsi e rifiorire continuo; va e viene il percorso della testuggine President Roosvelt (che richiama, ovviamente, Franklin D. Roosvelt, simbolo della rinascita americana dopo i disastri della crisi del 1929), che all’inizio del film si muove verso il lato sinistro del quadro e, nell’ultima inquadratura, si trascina da sinistra a destra, riprendendo (forse) la strada di casa. Eppure, non sempre la ripetizione diviene gesto, movimento, consapevole. Nel caso di Lucky, infatti, il ciclo ripetitivo si rompe nell’istante in cui egli comprende che il proprio corpo, come gli suggerisce il medico, “prima o poi crollerà”, e da quel momento il microcosmo che lo circonda si modifica in relazione al suo nuovo stato di coscienza, al punto che i minuti, i gesti e le relazioni assumono, poco a poco, un differente peso specifico.
“Il realismo è un fatto”, continua a ripetere, appunto, Lucky, come una forma di mantra che passa da pragmatismo congiunturale a obiettiva valutazione interiore, esistenziale.
Andiamo con ordine: Lucky, vero e proprio doppio filmico di Harry Dean Stanton, è un veterano della Seconda Guerra Mondiale che passa le proprie giornate sospeso tra i suoi esercizi di yoga, la colazione al bar dell’amico Joe, cruciverba, quiz televisivi e, infine, le serate al pub di Elaine. Il percorso coperto durante la giornata è sempre il medesimo, la sua routine rigida e cadenzata. Lo spazio stesso, il deserto sterminato che circonda la piccola comunità all’interno della quale si muove il protagonista, è una specie di evocazione/ripetizione de-mitizzata di un immaginario infinitamente masticato e arrangiato, che trova il proprio controcanto nella normalizzazione del corpo attoriale del “divo” (all’inizio dei titoli di testa il film di John Carrol Lynch sembra una versione spostata di Paris, Texas di Wim Wenders: al posto della tanica vuota, Harry Dean Stanton tiene in mano un accendino e fuma una sigaretta, prima di intraprendere, come nel film del cineasta tedesco, il suo cammino).
Near-Death Experience
Lo shock provocato da un improvviso malore spinge Lucky a mettere in discussione i punti fermi delle sue strutture di pensiero e, inevitabilmente, a ripercorrere il proprio passato e l’insieme delle azioni compiute nel corso del tempo. Il protagonista, infatti, non credendo all’esistenza di un’anima ed essendo scettico rispetto alla possibilità di una vita oltre la morte, si trova suo malgrado costretto a elaborare attivamente il proprio processo di progressiva separazione dal mondo che, lentamente e inesorabilmente, s’inscrive in un’autentica “esperienza di pre-morte”.
Il significato della morte è, prima di tutto, espirazione, capacità di lasciare andare, e in questo senso è il personaggio di Howard, interpretato dal grande David Lynch (personaggio che definisce l’autentico asse morale dell’opera, fondamentale e marginale al tempo stesso) a porre l’accento sull’importanza dell’accettazione, dell’abbandono. Infatti, inizialmente disperato per l’improvvisa scomparsa dell’amata testuggine con cui viveva, Howard si rassegna infine alla separazione e al superamento dell’egoismo da attaccamento, condizione necessaria per affrontare la dipartita dal mondo.
Assoluto Presente
Come viene in maniera fin troppo scoperta sottolineato dalla scena in cui Lucky ri-programma il timer incantato della caffettiera, rimasto a lampeggiare sulle ore 12:00, o dalla conversazione che intrattiene con un altro vecchio Marine, in cui si parla di una bambina buddhista che in mezzo all’orrore della guerra continua a sorridere, felice di poter esserci ancora per onorare ogni singolo istante della vita, l’approdo del viaggio verso l’illuminazione passa per Lucky proprio attraverso la contemplazione di ciò che nasce e muore qui e ora, i giganteschi saguari del deserto: il protagonista osserva, in un battito di ciglia, come in un solo organismo possano coesistere morte (la struttura del cactus è in sfacelo, consumata dal tempo e dalle intemperie) e vita (sulla cima della pianta, spuntano gemme e fiori pronti a crescere) o, meglio, assiste all’eternità compressa in un corpo, in un istante.
Perdita e rinascita, andata e ritorno. A condensare tutto, nella scena più bella e struggente di un film dove tutto è detto e il respiro è corto, ci pensa la flebile voce dell’immenso Harry Dean Stanton, che si libra leggera mentre intona Volver Volver di Fernando Maldonado:
“È arrivato il momento di perdere… io so perdere/io so perdere/Voglio tornare, tornare, tornare ”.