Drammatico, MUBI, Recensione

LA DONNA DELLO SCRITTORE

TRAMA

Le truppe tedesche sono alle porte di Parigi. Georg, un rifugiato tedesco fugge a Marsiglia appena in tempo. Il suo bagaglio contiene i documenti di uno scrittore di nome Weidel, che si è tolto la vita per paura delle persecuzioni. Questi documenti comprendono un manoscritto, alcune lettere e l’assicurazione dell’ambasciata messicana per un visto. A Marsiglia possono rimanere solo coloro che possono dimostrare che ripartiranno. Per dimostrarlo hanno bisogno di essere in possesso del permesso di ingresso da un potenziale paese ospitante. George ha assunto l’identità di Weidel, memorizzato tutte le informazioni contenute nei documenti e spera così di ottenere uno dei pochi passaggi disponibili in nave. Sprofonda nella mezza esistenza di chi è in fuga: chiacchiera con i rifugiati nei corridoi di un piccolo hotel, nei consolati, nei caffè e nei bar lungo il porto. Il suo unico amico è Driss, figlio del compianto Heinz, morto mentre cercava di fuggire. Ma cosa lo spinge a partire? È possibile iniziare una nuova vita in un altro luogo? Tutto è destinato a cambiare quando George incontra Marie, una donna misteriosa di cui si innamora. È l’amore o l’interesse a spingere Marie fra le braccia di un medico, Richard, prima di partire alla ricerca del marito? Si dice che quest’ultimo sia arrivato a Marsiglia con in mano un visto per il Messico per sé e la moglie.
dal pressbook

RECENSIONI

L'apertura, il possibile e l'irrilevante

Prima di scrivere questa recensione, mi sono visto cinque film di Christian Petzold in rapida successione e in rigoroso ordine cronologico: Gespenster (2005), Yella (2007), La scelta di Barbara (2012), Il segreto del suo volto (2014) e, naturalmente, La donna dello scrittore. Complessivamente, sono stati sufficienti a farmi un’idea ragionevolmente chiara del suo universo e, soprattutto, mi hanno permesso di approdare a due conclusioni. La prima, personalissima e tutto sommato irrilevante, è che non amo particolarmente il suo cinema: fatta eccezione per Gespenster e in parte Yella, lo trovo eccessivamente dichiarativo, programmatico e didascalico, soprattutto nei suoi ultimi film improntati alla ricostruzione storica e basati su un linguaggio deliberatamente convenzionale e letterario. Ma questa conclusione, ripeto, riguarda soltanto la sfera privata e non trasferibile del mio gusto, sicché, come suol dirsi, lascia il tempo che trova.

Gespenster (2005)

La seconda conclusione, invece, esula nettamente dalla sfera del gusto personale e investe direttamente la concezione del mondo che traspare dai suoi film, la visione delle cose che informa in profondità le vicende raccontate e che finisce per dare al suo cinema un'integrità impressionante. Con ogni probabilità, Petzold è il regista più irriducibilmente umanista che abbia mai incontrato: per lui, come esemplificato in modo inequivocabile in Yella, neanche la morte del personaggio principale ostacola la proliferazione di possibilità narrative ed esistenziali. Ciò che mi pare venga affermato a oltranza nei suoi lavori è l'importanza fondamentale del libero arbitrio e del suo corollario etico, la responsabilità. Non conta che le ipotesi di cambiamento siano frustrate (Gespenster), che la vita reale sia finita (Yella) o che le persone siano perseguitate (La scelta di Barbara): egli crede e afferma che il caso continui a offrire opportunità illimitate.

Yella (2007)

Siamo insomma lontanissimi dal fatalismo tragico, dall'idea di un destino predeterminato e immodificabile: qui ci troviamo in un territorio laicissimo in cui l'essere umano è, nonostante tutto e tutti, artefice della propria sorte. Homo faber, in una parola. Magari non un vero e proprio demiurgo incontrastato e onnipotente, ma comunque un giacimento di aperture verso il futuro, un essere convocato a costruire attivamente il proprio avvenire e non ad adattarsi passivamente al fluire incontrollabile degli eventi. Mi è impossibile, dunque, non scorgere nella sua opera una fiducia spropositata nell'uomo e nelle immagini (l'autentico dramma è scivolare fuori campo, diventare invisibili come in Gespenster). E mi rendo infine conto, ripensando a La scelta di Barbara, che tutto ciò che ho scritto può tranquillamente essere riassunto in una sola parola: resistenza.

La scelta di Barbara (2012)

Con Il segreto del suo volto, questa impressione è diventata certezza: l'umanismo di Petzold (in sostanza la valorizzazione del libero arbitrio e la conversione del fato in caso) si spinge addirittura a riconfigurare i codici del noir. Il determinismo tragico che connota tradizionalmente il destino noir (ogni cosa è già scritta, non c'è modo di stravolgere il corso degli eventi) viene bruscamente deformato: in questo film, come in tutti gli altri di Petzold che ho visto, il caso non è mai fatalità, ma accidentalità. E questa accidentalità offre occasioni, apre scenari per l'esercizio del libero arbitrio. La parola chiave è davvero quella di "scelta". Resistenza e scelta, in definitiva, mi sembrano essere i due vettori che informano in profondità il suo cinema. Resistenza ai colpi avversi della Storia (nientemeno che la deportazione in questo caso) e scelta di un avvenire aperto e responsabile, divergente dal percorso che sembrerebbe già tracciato dagli accadimenti.

Il segreto del suo volto (2014)

Ovviamente, in quest’ottica, è il gesto del sacrificio a porsi come il momento più alto nell'esercizio del libero arbitrio: rinunciare a un tornaconto personale bell'e pronto significa soppesare l'incidenza morale della propria acquiescenza e convertire la remissività in responsabilità. Rifiutare il vantaggio apparecchiato dal caso e uscire dal sentiero tracciato diventa in definitiva la cartina di tornasole più attendibile per i personaggi di Petzold: è in questo "no" detto alla catena apparentemente immutabile degli eventi che si misura la loro statura morale. Se il caso dispensa occasioni, sta proprio ai personaggi cogliere queste opportunità e sfruttarle personalmente, sviluppandone responsabilmente tutte le implicazioni etiche. È una prassi che Petzold ha in comune con i fratelli Dardenne, ma con una differenza cruciale: se l'universo dei Dardenne è l'universo del dilemma (a un certo punto si pone sempre un'alternativa secca tra due comportamenti antitetici dal punto di vista morale), quello di Petzold è l'universo del possibile: messi di fronte a scelte quasi obbligate, i suoi personaggi arrivano a intravedere il coefficiente di potenzialità e apertura che queste stesse scelte riservano. La scelta diviene insomma la conquista del possibile e il sacrificio, conviene ribadirlo, l'apoteosi del libero arbitrio.

Anzi, ci si potrebbe persino spingere ad affermare che questo processo di apertura al possibile si manifesta tanto più chiaramente quanto più le vicende rappresentate sono apparentemente chiuse e inesorabili: Barbara, Nelly e Georg (rispettivamente protagonisti di La scelta di Barbara, Il segreto del suo volto e La donna dello scrittore) sembrano figurine incastonate e immobilizzate nel disegno inalterabile della Storia, ma paradossalmente è proprio questa apparente impotenza a rendere eroiche le loro decisioni. Resistenza e scelta, ancora una volta. Non sorprende dunque che i film di Petzold siano essenzialmente dei racconti di formazione, degli affreschi romanzeschi (donde l'impressione di letterarietà) in cui a rifulgere è il processo che porta i protagonisti a sviluppare un'autonomia di pensiero e azione capace di affrancarsi dai meccanismi stritolanti della Storia. Così il regista a proposito del protagonista di La donna dello scrittore: "Georg all'inizio è vuoto, una pedina, una vittima della storia; va in giro, siede nei bistrò, non ha passato né futuro, semplicemente vive nel presente. Continua a lottare nella vita perché pensa di non aver niente da perdere e di non aver ancora perso nulla. È  scaltro, quasi come un criminale; decifra i segnali intorno a lui e possiede un talento naturale nel fingere. Solo quando legge il manoscritto, durante la fuga, mentre il suo amico muore accanto a lui, ecco allora diventa improvvisamente una sorta di eroe tragico. Subisce una trasformazione. Si innamora. Assumere l'identità di qualcun altro gli dà uno scopo nella vita, sebbene costruito su una bugia. E durante tutta la storia, assumere l'identità di qualcuno che ha sentimenti e bisogni lo porterà, alla fine, a sacrificarsi".

C'è da sottolineare, tuttavia, che nei film di Petzold il sacrificio ha un significato molto meno altruistico di quanto sembri, poiché, di fatto, più che giovare alla persona che ne beneficia inaspettatamente, afferma piuttosto la capacità di autodeterminazione di chi lo compie. È proprio in questo senso che il suo cinema si colloca in territorio pienamente laico: non c'è l’idea cattolica dell’abnegazione altruistica in questi sacrifici, ma, al contrario, il desiderio irresistibile di affermarsi come persona indipendente e titolare del proprio avvenire. Si capisce dunque, alla luce di tutto ciò, anche il gusto per il momento aurorale delle situazioni che Petzold ha ereditato dal maestro Harun Farocki (scomparso nel 2014), come dichiarato nell'intervista rilasciata a Giulio Sangiorgio e pubblicata sul numero 43 di "Film Tv": "A volte, al montaggio, mi capita di vedere una sequenza e dire: «Questo è Harun», oppure: «Questo gli sarebbe piaciuto». Accade quando il prendere forma di un'idea, un desiderio, un piano, si dà a vedere, diviene immagine, passa per lo sguardo. [...] A Harun piaceva questo tipo di cose e scene simili sono presenti anche in La donna dello scrittore. Quando a Marsiglia Georg si trova di fronte alla mappa della città  si accorge che nessuno presta attenzione a lui, al fuggitivo, e che "chi non viene visto" è come un fantasma. E poi, Marie è l’unica a entrare in contatto con lui, a toccarlo e a guardarlo, anche se solo per un momento. Da questo può nascere l’amore. Questo sarebbe piaciuto a Harun, perché qui osserviamo come si genera qualcosa".

Questa propensione a dare immagine alla nascita di qualcosa di virtualmente invisibile ("un'idea, un desiderio, un piano") ci dice moltissimo del cinema di Petzold: è esattamente in queste immagini aurorali che si dischiude interamente la possibilità dell'apertura (non è fortuito che il suo film preferito sia Una gita in campagna di Jean Renoir, probabilmente il regista che più di ogni altro ha fatto dell'apertura la qualità più saliente del suo cinema). In La donna dello scrittore la predilezione per l'immagine dell'origine, quella in cui tutto è ancora possibile, si accompagna al suo contrario, vale a dire a un retrogusto kafkiano che, manifestandosi specialmente nelle sequenze burocratiche, strattona il film verso le paludi stagnanti del surreale. A farsi largo tra l'apertura al possibile e la chiusura del surreale è il sottotesto della costruzione dell'identità: Georg (Franz Rogowski), come Barbara e Nelly dei due film precedenti, attraversa i vari stadi dello smarrimento esistenziale (sradicamento, angoscia, incertezza, dissimulazione e via sospettando) per approdare finalmente a una posizione così indipendente e proiettata verso il futuro da rasentare l'incoscienza (l’attesa a oltranza di Marie/Paula Beer nel cafè del Mont Ventoux, persino dopo l'inizio dei rastrellamenti: "Ma lui rimaneva seduto, in attesa di lei", declama la voce narrante).

Che dire, infine, della macroscopica anomalia cronologica riguardante l'attualizzazione dell'occupazione nazista (il romanzo di Anna Seghers da cui il film è tratto si svolge nel 1940) nella Marsiglia di oggi? Non tanto un'asserzione politica a proposito del contemporaneo che suonerebbe come “stiamo rivivendo esattamente ciò che è accaduto nel 1940” (asserzione che peraltro si porterebbe dietro come una casseruola tonitruante la pregiudiziale della ciclicità della storia, quindi dell'immutabilità assoluta), quanto, in perfetto stile petzoldiano, un'ipotesi sulla possibilità del riprodursi di quelle stesse dinamiche, di quella stessa chiusura letale. Ora, al termine di questa dettagliata analisi, sarebbe lecito chiedersi per quale motivo il mio giudizio sul film non sia entusiastico come ci si aspetterebbe. Il motivo è semplice: per quanto apprezzi la coerenza, la lucidità e la compattezza del discorso cinematografico di Petzold, mi riesce difficile aderire incondizionatamente a un progetto che, pur consacrato all'apertura e al possibile, sceglie le formule della didascalia e della dimostrazione per farsi strada nello spettatore (voce narrante illustrativa, primi piani esplicativi, dinamiche sentimentali non particolarmente sottili, persino le allusioni risuonano fragorosamente in questo film). Detto altrimenti, non riesco ad abbracciare un'apertura al possibile che mi stringe in una morsa soffocante mentre mi sussurra parole di speranza. Ma questo, come dicevo all'inizio, tutto sommato è irrilevante.