Drammatico, Raiplay, Recensione

IL CIELO BRUCIA

Titolo OriginaleRoter Himmel
NazioneGermania
Anno Produzione2023
Durata102'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Due giovani amici berlinesi si ritrovano a trascorrere una torrida estate in una casa per le vacanze sulle coste del Mar Baltico. Leon è uno scrittore in crisi che sta terminando il suo secondo romanzo in attesa dell’arrivo del suo editore, mentre Felix deve preparare un portfolio per entrare in un’accademia di belle arti. Ai due ragazzi si uniscono Nadja, lavoratrice stagionale in un paesino dall’altro lato del bosco, e il suo ragazzo occasionale Devid dal quale anche Felix si sente attratto.

RECENSIONI

IL CIELO IN FIAMME

In my mind...

 «Ero in Turchia con mia moglie, dove ho visitato un'enorme area forestale completamente bruciata. Mi spaventava molto perché non c'erano più suoni. Non c'erano uccelli, né insetti, né vento. Tutto era nero, morto. Quella era un'immagine della fine per me, una specie di immagine apocalittica. Poi ci sono stati incendi in Germania e anche in altri posti nel mondo. Ovunque le foreste stanno bruciando. Quando le foreste bruciano in Germania e le foreste sono il nostro mito, dove si svolgono le nostre fiabe – i Nibelunghi, Fritz Lang amava la foresta – se questi luoghi bruciano, cosa succede alle nostre narrazioni, alle nostre storie?»
Christian Petzold

"Roter Himmel", cielo rosso, nel titolo originale. "Afire", semplicemente in fiamme per la distribuzione internazionale anglofona. Sottotitolo ipotetico: l'ombelico e l'apocalisse. Christian Petzold, capofila per la generazione dopo i venerati maestri del cinema tedesco d'autore, concepisce l'opera decima durante una quarantena Covid, le dà forma sulla costa baltica e la spedisce al festival di Berlino dove vince l'Orso d'argento. Il cielo brucia prosegue il discorso di "un cinema di pura superficie, evidente nella propria dimensione artificiosa, metalinguistico e antipsicologico" (Roberto Manassero, Film Tv), pone come segno continuo il volto e il corpo familiare di Paula Beer e riprende da Undine l'addensamento evocativo di immagini e concetti attorno all'elementare - allora era l'acqua, stavolta in parte l'acqua ma soprattutto il fuoco. Il film si coagula e forma attorno a certe immagini, certe pulsioni che vengono prima. Innanzitutto la nostalgia del mondo e della natura per via del lockdown medico e della preview apocalittica del rogo in Turchia da cui l'ambientazione silvana e la messinscena più ambientale possibile (ne diremo). E poi l'estate come luogo dell'anima, della giovinezza e del cinema - e la specifica estate delle riprese con il suo clima. Se questo è il canovaccio, l'ordito presenta tre fili che seguono dimensioni spaziotemporali, culturali e emotive: l'autobiografia, lo spirito del tempo e il mito.

Racconta Petzold con la consueta deliziosa verve comica che la frase in apertura della sceneggiatura, omaggio all'amato James Joyce, era "ritratto dell'artista da giovane stronzo". Sarebbe anche una caption perfetta per il filone narrativo principale, la crisi post-adolescenziale del protagonista (un eccezionale, insopportabile Thomas Schubert) che vuole essere scrittore ma non fa altro che fissare il proprio ombelico. È storia di molti ma a detta del regista pesca nei ricordi privati di un'estate particolare: quella del 1984, quando studiava filosofia a Milano. Inoltre il narcisismo terminale e la miopia di Leon servono un'operazione di autocritica ironica ma, più significativamente, possono tranquillamente rappresentare l'atteggiamento collettivo della società globale e specialmente occidentale contemporanea di fronte all'apocalisse che, come ammoniva profetico Giovanni Lindo Ferretti, è quello che c'è già. Il cielo brucia è un film corale scritto da un regista che garantisce autonomia e un film potenziale a ogni personaggio, ispirato sempre nella fatidica estate '84 da uno spettacolo teatrale di Carmelo Bene che riproponeva grandi classici estromettendo il protagonista. Per Christian Petzold i personaggi vengono prima degli intrecci - è una di varie affinità con il cinema di Joachim Trier che costruisce scenari dove lasciare liberi i suoi personaggi inadeguati, in particolare abbiamo pensato spesso all'altrettanto generazionale/Zeitgeist La persona peggiore del mondo. Eppure il punto focale del racconto e il punto di vista non si muovono dalla persona di Leon da cui gli attacchi acuti di falsa coscienza che ci assalgono durante la visione. Leon non si accorge di nulla, non capisce, non riesce a empatizzare - e scrive un romanzo di merda e ridicolo fin dal titolo, "Club Sandwich". La maturazione personale per esposizione a dolori e drammi personali e altrui lo renderà uno scrittore migliore, gli darà spessore. Ovviamente è cinema antinaturalista e antipsicologico e nella realtà le cose non sono altrettanto semplici e automatiche. È lo stesso regista, in conversazione con il pubblico presso il cinema Beltrade di Milano, a confermare l'ovvio ossia di non credere che un ottimo artista e un ottimo essere umano necessariamente coincidano.

Un gruppo di abbastanza giovani in vacanza in territorio liminare, grandi incendi abbastanza vicini da poterli vedere e sentire - i Canadair tagliano continuamente la banda sonora - ma non abbastanza da modificare la routine estiva, chi si concentra sul proprio ombelico e chi in un epicureismo "no future" da Anno Mille, un pericolo mortale che aleggia nell'aria ma per un tacito accordo interessato, per non rovinare la stagione turistica, tutti minimizzano come l'epidemia di colera in Morte a Venezia (siamo per altro sul Baltico estremo opposto della topografia dell'immaginario di Thomas Mann)... Il cielo brucia affonda le radici della propria ispirazione nella fatidica estate 1984 ma non potrebbe essere girato in un momento storico differente da quello che vede l'esordio degli effetti più catastrofici e irrimediabili della crisi climatica e la completa inanità di una specie di fronte alla prospettiva della propria estinzione. Se gli altri hanno una minima presa sul reale (cfr. Felix che si impegna a riparare il tetto, aiutato dall'amante Devid), Leon non si rende mai conto e il mondo gli si rivela freudiano in lapsus e atti mancati (come il disturbo del sonno). Ironicamente - perché nessuna catastrofe è mai morale, in primis quella climatica - sarà l'unico a uscirne sostanzialmente illeso. Il parallelo continua perché la catastrofe del film è presente da sempre ma può essere ignorata, esclusa dal campo visivo, fino a un certo punto. Il certo punto è troppo tardi. Il film si interroga anche - senza giustamente fornire risposte secche - attorno al senso dell'arte (letteratura, cinema) in tempi esiziali per cui lavorare a "Club Sandwich", nella radura tra i boschi in fiamme, appare ancora più ridicolo di quanto lo sia per sola pessima scrittura.

Undine già usava come architrave archetipica e irrobustimento discorsivo il mito germanico, così Il cielo brucia è pieno di rimandi e allusioni al folklore, alla fiaba e ovviamente in primo luogo ai fratelli Grimm. L'incidente, l'attraversamento del bosco come innesco narrativo - morfologia fiabesca base, puro Propp - poi la casa in mezzo al bosco - Hansel e Gretel, Biancaneve eccetera - che si scopre abitata da una presenza femminile misteriosa e indistinta che ammalia e non si mostra per tutta la prima parte del film. Paula Beer è fata/strega. La chiave fiabesca/horror alla Grimm (e horror tout court perché l'auto in panne è anche innesco tipo di quel genere cinematografico) che apre il film verrà dissipata in ipertesto e resterà fuori campo fino al finale e alle scene di incendio con il cinghiale in fiamme che rimanda al prodigio e al fantastico e al mostruoso. Il cinema di Christian Petzold è sempre stratificato, divagante, tendente al saggio e alla risemantizzazione di meme culturali. Oltre ai fratelli Grimm, all'horror e all'attualità trovano posto ne Il cielo brucia una poesia di Heinrich Heine e l'immagine degli amanti carbonizzati di Pompei che a sua volta chiama Viaggio in Italia di Roberto Rossellini, entrambi rimandi a quando si poteva parlar d'amore, di romanticismo estremo, di Eros e Thanatos senza filtri, ironia, distacco. Poi c'è la musica. Come detto, il regista non voleva una colonna sonora che coprisse il reale e la natura e la presa diretta con l'artificio. La banda sonora è occupata dagli insetti, dal vento, dai rumori del bosco e del mare (e dal rombo dei Canadair in contrappunto). Quindi se qualcosa si aggiunge ha bisogno di una forte motivazione. Trovano spazio un brano del mai abbastanza compianto Ryuichi Sakamoto, "Be Late" di Tarwater, amico personale di Petzold, ad ammantare di mistero ulteriore i rumori di Paula Beer mentre fa sesso fuori campo e, soprattutto, "In my mind", pezzo dream pop dei viennesi Wallners. Come in Druk - Un altro giro, altro film Zeitgeist, un brano sconosciuto di una band periferica si fa coefficiente emotivo e psicopompo per i territori psichici che abiteremo. Fin dai titoli di testa quell'in my mind ripetuto all'infinito ci spinge a non prendere proprio alla lettera la storia che stiamo seguendo, i suoi salti, le incongruenze, le piste abbandonate e a insospettirci per l'invariabile messa a fuoco interna a uno scrittore, uno che sta scrivendo storie...
Lo stile del regista, sempre molto attento all'immagine, alla composizione, stavolta segue una maggiore uniformità visiva - in questo senso, alla Rohmer - con meno momenti di puro cinema. Ne possiamo citare ugualmente almeno due: la scena cardine della contemplazione dell'incendio da sopra il tetto, con un campo / controcampo che a lungo resta sospeso fuori campo come in un horror; la visione puramente poetica della bioluminescenza delle alghe. Se qualcosa può essere rinfacciato all'ultima prova petzoldiana è una questione di dimensioni. È un testo che può apparire fuori scala rispetto al suo ipertesto, un film "piccolo" rispetto alle sue implicazioni che tradisce un poco di respiro corto quando si impiglia nella zona grigia tra il racconto d'estate e il free form essay senza il coraggio di seguire a fondo una direzione o l'altra. È mancato - forse per troppo amore verso i personaggi, il che è ammirevole - un poco di coraggio drammaturgico. In questo modo resta un piccolo scarto e una piccola resistenza a lasciarsi completamente ammaliare, all'arrendersi a un film che, come tutto il cinema di Petzold, ha nell'obliquità, nell'allusività e quindi nella seduzione da canto di sirena (ondina) l'arma più forte. Se ogni racconto estivo deve essere per forza e in automatico paragonato a Eric Rohmer, boss del quartiere, è interessante notare come il protestantesimo prenda il posto del giansenismo e sul bagnasciuga, sulla soglia tra dimensioni e elementi, non siano tanto l'attrazione, la seduzione a muovere i fili quanto la nevrosi. Nadja, Felix e Devid sono corpi erogeni e erotici - opposti all'impacciato e complessato protagonista - che si spogliano e fanno sesso eppure non si percepisce la stessa leggerezza da festa galante, da gran teatro del mondo che domina l'universo rohmeriano. Oppure più semplicemente sarà anche questo un segno di tempi cupi apocalittici. Il cielo brucia resta un esempio prezioso di cinema divagante senza traccia di cinismo che non ha paura dell'idiosincrasia e anzi trova la cifra del suo umorismo assurdo molto tedesco nel disagio, nell'imbarazzo.