Drammatico, Recensione, Sala

LUBO

NazioneItalia, Svizzera
Anno Produzione2023
Durata175'
Tratto daIl seminatore di Mario Cavatore
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Vita e tragedia di Lubo Moser, nomade di etnia Jenisch, artista di strada, che nel 1939 viene chiamato a difendere il confine elvetico e si vede sottrarre i tre figli nel programma di rieducazione nazionale.

RECENSIONI

Il cinema di Giorgio Diritti passa dalla mostrazione alla spiegazione. Nel suo adattamento del romanzo Il seminatore di Mario Cavatore, il regista emiliano percorre la parabola di Lubo Moser, nel tempo e nella Storia: nomade di etnia Jenisch, la terza maggiore popolazione europea dopo Rom e Sinti, di mestiere fa l’artista di strada, ma viene richiamato nel 1939 dalla Confederazione Elvetica per presidiare i confini nel caso di invasione tedesca. Intanto gli vengono sottratti i tre figli piccoli, proprio perché Jenisch, e rientrano nel programma di rieducazione nazionale Kinder der Landstrasse (Bambini di strada). L’amata moglie muore per difenderli. In altri termini la neutrale Svizzera, culla di una teorica moderazione e anti-bellica, compie un grave atto di razzismo contro i molti Lubo sparsi sul territorio, e “rieduca” infanti proprio come papa Pio IX col piccolo Edgardo Mortara in Rapito di Bellocchio. In modo simile anche qui il padre non si rassegna alla violenza dei rapiti, i sottratti di Stato, e inizia un percorso nel secolo di guerra, alla ricerca dei bambini perduti e di vendetta, o almeno di un risarcimento. Il film punta alto: costruisce un racconto di 175 minuti che avanza per ellissi, portando il protagonista in giro per la sua tragedia e quella del Novecento. E varia graficamente sui tanti volti di Franz Rogowski, giovane o maturo, terrigno o elegante, per strada o nei palazzi, che viene chiamato a condensare in un’unica storia la natura sfaccettata e camaleontica del suo parco attoriale.

Un film lungo come un secolo, che lascia-ritrova l’uomo a più riprese, segnandolo con l’ossessione primaria della prole smarrita. Lubo si ritrova a inseguire un’immagine, che torna in flashback o per allucinazione, mostrandosi nella forma fantasmatica di ciò che è svanito, ormai dissolto e dunque impossibile da riprendere. Quando si svelerà la sorte dei bimbi, infatti, questa è tanto tragica e ingiusta che a Lubo viene taciuta. Nel corso dei decenni prova a riafferrare le loro figure e quella della moglie defunta, a ritrovarla nei volti delle donne, come nel viso angelico di Valentina Bellè che però non può bastare. Dal commercio dei gioielli alle nuove relazioni, passando per la prigione, il nomade può vivere più volte ma non ritrovare gli affetti svaniti: quando ci prova per paradosso finirà per perdere anche altre donne e altri figli. Diritti ha cambiato radicalmente registro rispetto alle opere di quasi vent’anni fa, basti pensare all’immediata naturalità de Il vento fa il suo giro, alla capacità di mostrare senza parole; qui conduce l’intreccio in modo dimostrativo, racconta un uomo che si ostina a credere nell’amore, davanti a una paurosa ingiustizia, e la dice, la enuncia e denuncia, la porge alla nostra indignazione. Non mancano momenti di rappresentazione della Natura, soprattutto nella prima parte rocciosa, sulle montagne al confine svizzero, ma sono squarci, frammenti, pillole mai decisive. La divulgazione prevale sulla composizione.