TRAMA
Isla Nublar: 22 anni dopo i fattacci di Jurassic Park, il parco è aperto, tra scienziati che giocano fare dio, militari ottusi e un nuovo “Rex”/Frankenstein.
RECENSIONI
Jurassic World si collega, evidentemente, al primo Jurassic Park ma lo fa in modo molto più consapevole e meno banale di quello che sembra a prima vista. Perché al di là degli agganci narrativi, come il ritorno su Isla Nublar, il rimando esplicito a quei personaggi o le ideuzze metafilmiche sparpagliate qua e là, è proprio il DNA fondante del film si Spielberg a essere ricreato e riprodotto. Quello del ’93 era esattamente ciò che il titolo dichiarava: un parco giochi. La sua (non unica) ragion d’essere era quella di vetrina effettistica, una tech demo, una visita guidata di un paio d’ore tra i sogni/mostri mesozoici di tutti i bambini, ingabbiati in una struttura da classicissimo monster movie avventuroso alla King Kong. Dinosauri falsificati talmente bene da sembrare veri (- è un dinosauro -, esclama Dr. Grant alla vista del brachiosauro in CG), autosufficienti ed emancipati da inutili orpelli come la “sceneggiatura solida” o i “personaggi tridimensionali”. Strapotere tecnologico e scene madri. Di fatto, non c’era bisogno di altro. Proprio come nei parchi giochi, in cui l’emozione immediata (il roller coaster che toglie il fiato) viene pretestuosamente contestualizzata (l’ambientazione ora spaziale, ora Maya, ora Azteca, ora chissene).
Jurassic World riparte esattamente da lì. 'omaggio a' e insieme 'riproposizione di' quel tipo di cinema con annessa autocritica già presente nell'originale e in altri esempi di pellicole schizofreniche. Star Wars, per dire, celebrava la purezza dei cavalieri Jedi che rinunciano agli aiuti della tecnologia mentre basava proprio sulla tecnologia degli effetti speciali molto del suo fascino. Il magnate Hammond di Jurassic Park, possibile doppio di Spielberg, rimpiangeva il suo ingenuo circo delle pulci mentre allestiva il suo fantascientifico circo dei dinosauri. Jurassic World fa esattamente lo stesso: nessuno si fa più incantare dal circo delle pulci (come si dice, programmaticamente, a inizio pellicola, i bambini, ormai, si annoiano alla vista di uno stegosauro) e allora ci si affida a improbabili, pacchiane e pericolose esagerazioni, come l'Indominus Rex, snobbato e canzonato dagli stessi personaggi del film per il nome ridicolo. Indominus che comunque, è appena il caso di puntualizzare, costituisce la maggiore attrazione del parco dentro il film e del film-parco stesso, in un risaputo ma simpatico (e significativo) slancio metatestuale.
La storia? La più stupida che si possa immaginare, con le gelide donne in carriera pronta alla redenzione, gli scienziati che giocano a fare dio e i militari ottusi che vogliono usare i raptor come armi biologiche (sic). Roba che nemmeno Shinji Mikami dei tempi d'oro. Ma tutto è molto friabile, leggero e come stemperato dalla perenne presenza dell'autoconsapevolezza critica. E col nume tutelare del primo classico riproposto ai limiti del remake: i ragazzetti sulla girosfera che incontrano l'Indominus Rex (e che poi finiranno sulla Jeep del primo Jurassic Park) sono esattamente i ragazzetti di Jurassic Park sulla Jeep che incontrano il Tyrannosaurus Rex. Ma solo per citare l'elemento più evidente.
Quello di Trevorrow è insomma, a suo modo, un film terminale, il figlio buono e ben pettinato dell’autoreferenzialità postmoderna che, ormai, non solo non è più capace di rompere l’incanto ma che rappresenta, anzi, l’incanto stesso di un prodotto autoconsapevole ed esibito per quello che è. E così, anche l’obolo da pagare alla Samsung non viene camuffato alla meno peggio ma sovraesposto e, in un certo senso, diegetizzato, diventando, il colosso coreano, lo sponsor ufficiale di un padiglione del Jurassic World in Jurassic World. E tra gli stessi, innumerevoli rimandi al primo Jurassic Park c’è il gadget/maglietta vintage e ultracostoso comprato su ebay.
Girato col proverbiale pilota automatico, citando alla lettera alcune sequenze spielberghiane, azzardando timidi long take, citacchiando qua e là James Cameron (sequenze alla 'escono dalle fottute pareti!') o Hitchcock (Pteranodonti/Uccelli), il film manca di personalità e polso (meglio: di un polso riconoscibile) ma non di ritmo. Fa quello che deve fare con asettica professionalità. Ne risulta un oggetto freddo e calcolatissimo, anche nel dosaggio della violenza grafica (a un passo o due dal VM14), ma tutto sommato godibile anche perché sincero, nel suo dichiarare i propri intenti, abbastanza divertente e umile. Umile nel senso che, nei confronti del capostipite, mostra una reverente ammirazione e dichiara pure la propria inadeguatezza: il progetto di Hammond, creare il parco giurassico, era folle e sbagliato, infatti finiva in vacca prima di iniziare. Jurassic World non solo porta a compimento quel progetto ma lo deteriora, creando in laboratorio l'Indominus Rex. La cosa probabilmente voluta quanto significativa è la sostanziale anonimia della nuova star: è grosso ma neanche tanto, è bianco tendente allo slavato, è cattivo ma privo di carisma. E' un sequel - letteralmente - incolore del Re(x), che invece uno sciagurato Johnston aveva fatto soccombere sotto le grinfie dello Spinosauro di Jurassic Park 3, in uno dei momenti più irriverenti, dolorosi e sbagliati della Storia del Cinema. Qui, infatti, sono proprio un T-Rex e un Raptor, i due protagonisti/simbolo del '93, che sconfiggono l'Obbrobrio Geneticamente Modificato e lo danno in pasto al Mosasauro.
Sull'Isla Nublar il Jurassic Park riapre i cancelli. Cosa è rimasto però del folle sogno di John Hammond se non un franchise? Il parco a tema punta alla spettacolarizzazione, ma non può scuotere uno sguardo assuefatto, ormai lontano da quel senso di meraviglia di venti anni fa. Le poche tracce del 1993 non sono altro che parte di una preistoria del nostro immaginario, un fossile abbandonato tra la vegetazione, che aspetta di essere riscoperto con malinconia.
Non può bastare quindi un mosasauro che balza fuori dall'acqua e divora uno squalo bianco, come non può bastare un'area gioco che permette ai più piccoli di cavalcare cuccioli di triceratopo. Serve di più, inevitabilmente. Ed ecco che l'uomo, fomentato dallo show business crea l'Indominus Rex, un prodotto genetico a sua immagine, che sfugge al suo controllo e ne ricalca spietatamente la natura malvagia. Siamo di fronte a un alieno, che fin dallo schiudersi dell'uovo assume i tratti di una creatura altra, ma soprattutto siamo di fronte alla nostra indole che prende forma. Questa sorta di Godzilla uccide per puro piacere, divora i suoi fratelli, impone la violenza seguendo logiche di puro individualismo.
Ecco quindi che tocca ai dinosauri originali darci uno schiaffo evolutivo, insegnandoci il valore della cooperazione e sbattendoci letteralmente fuori da un presente-passato che non possiamo comprendere. Che senso ha, infatti, instaurare un legame con loro se siamo i primi che non riusciamo a comunicare tra di noi? Di fronte alla ribellione contro la nostra specie, con il Tirannosauro, quello originale, che affronta l'I-Rex in uno scontro alla kaiju e viene supportato dalle altre razze presenti nel parco, non ci resta che imparare la lezione e constatare quanto siamo noi i dinosauri in questione. Tocca scappare in unarca, con la coda tra le gambe.
Andando oltre questa sbeffeggiante metafora, Jurassic World vuol far divertire e riesce nel suo intento. L'eccesso di azione, tra mercenari-interfacce che schiantano à la Predator, sauri volanti che credono di essere nel film di Hitchcock, classici inseguimenti per la sopravvivenza, limita la debolezza dei personaggi vittime di psicologie codificate e dal fare autoparodico/comico così in voga nell'ultima decade (penso ai film della Marvel per esempio). C'è il selvaggio 'animalista' Grady, grezzo ma dall'animo mansueto, che cerca di addestrare i Velociraptor; c'è la robotica Claire con una flemma da maschera niccoliana che prima della crisi ha un rapporto perlopiù oleografico/digitale con i rettili per poi addentrarsi fisicamente nel fango del giurassico; c'è Vic, una sorta di doppio del Dennis del primo capiolo, accecato dal potenziale economico e bellico dei dinosauri; c'è il proprietario Irrfan con i deliri eroico-demagogici alla Indipendence Day; ci sono i due fratellini, destinati a perdersi come da copione, Zack, il modello d'infanzia sognante spielberghiana, e Gray, le cui attrazioni preferite sono le coetanee e l'apatia generazionale.
E il dialogo con le origini? In tempi di sequel-reboot-prequel (?) e via dicendo, non poteva mancare l’abbraccio con i fondamenti della saga. Non stupiscono quindi le numerose strizzatine d’occhio che creano un collante intratestuale con il passato.
Si parla di tempi andati, con un’aura da collezionismo che fa sospirare le generazioni cresciute con il mito del Jurassic Park. Certo però che vedere la supertecnologia di una girosfera lasciare spazio all’antiquariato di una jeep vecchio stile con tanto di logo, dà soddisfazioni e riaccende, per gioco, il fuoco (primitivo) della meraviglia che fu.
Steven Spielberg (produttore esecutivo) e il suo braccio destro Frank Marshall (produttore) danno carta bianca al neo arrivato, apprezzato al Sundance Film Festival con Safety Not Guaranteed, Colin Trevorrow, sperando di ridare linfa alla loro saga: il regista e il suo sceneggiatore di fiducia Derek Connolly, prendendo le mosse da un soggetto di Rick Jaffa e Amanda Silver (quelli di L’Alba del Pianeta delle Scimmie), vogliono riallacciarsi al primo capitolo, all’idea di un parco a tema sicuro che sicuro non è, e omaggiano il suo autore Spielberg in ogni dove (la scena clou è quella del mososauro che inghiotte Lo Squalo), dal commento sonoro al tema principe della famiglia. Il combattimento finale fra la creatura ibrida e il T-Rex del primo capitolo (ma anche Il Mondo Perduto è richiamato più volte) è involontaria metatestualità, dove Colin Trevorrow perde l’incontro e critica la propria opera, “ibrido” di idee figurative e situazioni tese già sperimentate, coagulate da una struttura corale che è indigesta saga dello stereotipo. Anche i dialoghi sono terrificanti e il tentativo di fare commedia (dei sessi, familiare) o “politica” (Frankensteiniana, antimilitarista e animalista, con il co-protagonista maschile che gli autori hanno chiamato “L’uomo che sussurrava ai dinosauri”) ricicla in modo grossolano altri tòpoi spielberghiani. Eppure il film è stato un successo enorme, perché, ancora meta-cinema (forse) inconsapevole, quel che conta è il parco divertimenti con le sue attrazioni, l’inventiva nel creare sollazzi vari per il pubblico pagante (fuori e dentro il film), gli effetti speciali digitali, esaltati dal 3D, che donano il soffio della vita ai “mostri”, fino a maldestre antropomorfizzazioni (l’uso della performance capture fa più male che bene) con inopinate incoerenze caratteriali (all’inizio, l’Indominus Rex è ritratto come più intelligente dell’essere umano; in seguito la traccia viene smarrita).