TRAMA
In un piccolo villaggio norvegese Nils Dickman è stato appena nominato uomo dell’anno. Quando viene ritrovato il cadavere di suo figlio, morto ufficialmente di overdose, non ci crede e inizia un’indagine personale con vasto spargimento di sangue.
RECENSIONI
Nils è l’intruso che irrompe nell’universo malavitoso e lo scombina: per eseguire la sua vendetta, egli impegna metodi alieni ai gangster di professione, membri ridicoli di una mafia che è pronta a tutto tranne affrontare una persona normale. A sua volta l’uomo dell’anno riconvertito a spietato sicario non è meno risibile, nella società degli idioti, e innesca l’avvitamento dell’intreccio nel grottesco e paradossale. La continua incertezza tra serietà e scetticismo spiega (forse) l’apprezzamento generale per In ordine di sparizione, a partire dalla proiezione in concorso alla Berlinale 2014. Non è chiaro infatti in che misura il film di Hans Petter Moland vada preso sul serio oppure no. Se l’ambizione grottesca è evidente e quasi urlata (lo sfondo “farghiano”, i nomi simbolici, i vari tipi/stereotipi umani), il problema appare però più complesso: per esempio Nils che apprende la morte del figlio sprigiona un dolore autentico, non “scetticizzato”, ma poi nel riconoscimento di cadavere il corpo è gradualmente rialzato a manovella sul tavolo dell’obitorio con effetto spiazzante ed esilarante. Allo stesso modo uno scagnozzo gay viene giustiziato freddamente davanti all’amante segreto, che non può dire/fare nulla: ancora dolore serio contro slittamento scettico.
Kraftidioten si muove su una linea di confine portata all'estremo: riprese insistite, che durano troppo rispetto alla necessità narrativa, innesti fuori luogo, svolte improbabili (il bambino che si avvicina al rapitore, saturazione del vuoto paterno: «La conosci la sindrome di Stoccolma?»), elementi dissonanti che mettono il senso in discussione. Non solo grottesco, dunque: c'è un dubbio perenne fra due poli, un equilibrio tra farsa e dramma, con la prima che sembra prevalere salvo poi deviare all'improvviso e mostrare sofferenza vera.
Il gioco si esaurisce presto, la successione degli eventi è elementare fin quasi all'offensivo, tra mafie incrociate e rese dei conti, il meccanismo di genere viene meramente applicato senza intervento del 'demiurgo'. Anche così - però - grazie alla prova ambigua di tutti gli attori (un bifronte Skarsgård, ma anche la dimessa violenza di Bruno Ganz) resta parzialmente dislocante, senza etichetta, in bilico fra registri come ragione del suo essere.
Scritto da un danese e co-prodotto con la Svezia, questo thriller criminale con commedia del norvegese Hans Petter Moland, alla quarta collaborazione con l’attore Stellan Skarsgård, parte come un qualsiasi film di vendetta hollywoodiano-bessoniano ma, pian piano, pur non eccellendo, si fa apprezzare per le tracce di commedia che, nella caratterizzazione dei personaggi, prendono sempre più piede, prima tentennando con un boss malvagio da macchietta, in seguito palesando maggiormente le intenzioni parodistiche. Il film tradisce le aspettative “di settore” (thriller tragico, commedia sciocca), inventa situazioni spassose, ma dimentica di colmare certi vuoti (non rivela perché la moglie del protagonista lo odi e lo lasci) e risulta del tutto improbabile nel descrivere le azioni del villain di Pål Sverre Hagen, che scatena una guerra per superficialità d’analisi. Troppi anche i debiti dell’opera con stilemi altrui, ad esempio di Tarantino nei dialoghi astrusi socio-filosofici o di John Michael McDonagh (per fare un nome recente) nel giocare con la caricatura del genere. La messinscena di Hans Petter Moland, però, nobilita il tutto, per totali innevati, per il Duel dello spazzaneve, per la trovata della ruspa mostruosa che inchioda, letteralmente, il boss con un tronco nell’autoveicolo, per il finale dei due padri silenti che guardano la morte beffarda.