TRAMA
Fanciulla della buona società inglese sposa fascinoso avventuriero. Ma c’è qualcosa che non va…
RECENSIONI
Un incontro in treno, una conversazione che nasce (come) per caso, un contatto forse troppo fortuito. Non è DELITTO PER DELITTO, ma non siamo lontani. Il quarto lungometraggio americano di Hitchcock inizia (quasi) come REBECCA: un brutto anatroccolo occhialuto si fa sedurre da un bizzarro dandy. A rovinare la festa, in mancanza di governanti squilibrate, un’ANGOSCIA strisciante: la donna capisce che il marito è un fannullone e, per giunta, gli espedienti di cui vive (bugie, debiti, affari poco limpidi) non bastano a coprire le spese. Gran parte dell’opera del regista inglese è costruita sull’iterazione di uno schema: un personaggio debole e solo è al centro di una cospirazione. Dal candido fuggiasco che deve dimostrare la propria innocenza alla sposina preda dei fantasmi mentali il passo è nullo. Ne IL SOSPETTO la situazione è più complessa. Non – come nel romanzo di partenza, Before the Fact di A. B. Cox – una donna che scopre i progetti omicidi del marito, ma una moglie che coltiva L’OMBRA DEL DUBBIO. Come in REBECCA, si è indotti ad adottare il punto di vista di Lina (GIOVANE E INNOCENTE, quindi degna di simpatia e fiducia) e a vedere le azioni di John (non cristalline, ma neppure delittuose) come tasselli di un piano di morte. Ma se REBECCA si conclude con una spiegazione “razionale” ai confini del cervellotico, IL SOSPETTO presenta un finale aperto sull’abisso, teatro di guerra di verità opposte, indissolubilmente sospese, radice di una tregua che potrebbe finire alla curva successiva. Hitch crea un sogno in (molto, ironicamente troppo) bianco e (sfumato) nero, che aggira con aria sorniona il rischio commerciale di un Grant dark e certifica (per l’ennesima, fulgida volta) la monarchia assoluta della mdp, in virtù della quale un bicchiere di latte non è solo un bicchiere di latte.

Il tarlo del sospetto e la rappresentazione del matrimonio come tomba dell’amore: Alfred Hitchcock all’apice della perfidia, in un film che segnò anche l’inizio della collaborazione con Cary Grant e fruttò a Joan Fontaine (La Prima Moglie - Rebecca) un Oscar. Magistrale la composizione della suspense con progressione psicologica: lo spettatore vive tutto attraverso lo sguardo e le scoperte della protagonista, con i dubbi che vengono continuamente e sadicamente iniettati e dissipati. Fondamentali, in questo senso, la figura dell’amico di Johnnie, il Beaky di Nigel Bruce (che rassicura Lina), l’utilizzo in chiavi differenti del valzer ‘Wiener Blut’ di Johann Strauss e il perfetto dosaggio sussultorio nel montaggio delle reazioni della protagonista. Il feroce finale (in cui Johnnie uccide Lina), voluto dal regista e dal romanzo “Before the fact” di Francis Iles (alias Anthony Berkeley Cox), fu cambiato in rispetto del Production Code Administration che non ammetteva assassini impuniti e per volere della co-produzione e distribuzione RKO, che voleva preservare l’immagine del divo Cary Grant: il risultato, per quanto possa apparire incoerente, in realtà sospende l’opera nel territorio dell’ambiguità e appare come beffardo allerta del regista su paranoie e voli di fantasia. Giustamente celebre la sequenza del bicchiere di latte luminescente (contiene una lampadina, per renderlo sinistro e attirare lo sguardo).
