BIENNALE CHANNEL, Drammatico, Recensione

BLANCO EN BLANCO

Titolo OriginaleBlanco en blanco
NazioneSpagna, Cile, Francia, Germania
Anno Produzione2019
Durata100'
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Siamo all’inizio del ventesimo secolo. Pedro arriva nella Terra del Fuoco, un luogo violento e inclemente, per fotografare il matrimonio di un potente proprietario terriero di nome Porter. La sua futura moglie, ancora una bambina, diventa l’ossessione di Pedro. Nel tentativo di catturare la sua bellezza, egli rivela le forze del potere che dominano queste terre. La sua rivelazione viene scoperta e Pedro è punito. Impossibilitato a fuggire, viene invece costretto a diventare complice della realizzazione di una nuova società che sorge dal genocidio del popolo Selknam.

RECENSIONI

«Il cinema è una forma di violenza». Con queste parole Théo Court presenta il suo secondo lungometraggio, Blanco en blanco, visto in Concorso nella sezione Orizzonti di Venezia76 e vincitore del Premio per la Miglior Regia. Proprio quella regia che per Court diventa gesto vampiresco, sguardo attivo e manipolatorio che si nutre del reale e si adopera a trasformarlo, plasmandolo a suo piacimento. Come l’anima rubata dagli scatti delle prime macchine fotografiche, un occhio che accelera fino a 24 fotogrammi al secondo per rincorrere la bellezza a discapito di etica e umanità.
In Blanco en blanco questo controverso rapporto tra etica ed estetica viene incarnato dalla figura di Pedro (Alfredo Castro), fotografo solitario e particolarmente talentuoso che nei primi anni del Novecento viene chiamato nel mezzo della Terra del Fuoco da un invisibile proprietario terriero, il signor Porter, per immortalare il suo matrimonio con una sposa ancora bambina. Attorno a sé Pedro troverà le poche case del podere disperse in una natura aspra e incontaminata, una landa pressoché deserta se non fosse per le ultime tribù del popolo Selknam, i nativi americani che vivono negli estremi lembi australi del continente e ai cui grandi falò è dovuto il suggestivo nome del luogo, Terra del fuoco appunto. Quello dei Selknam fu uno degli eccidi più scabrosi ed efferati della storia americana, una vera e propria caccia all’indigeno iniziata nella metà dell’Ottocento e portata avanti, un morto ammazzato alla volta, da Francesi, Inglesi, Italiani e Spagnoli. Di questo genocidio restano testimonianze evidenti nelle fotografie di uno dei suoi protagonisti, l’esploratore rumeno Julius Popper, cui si devono ricchi album di composizioni fotografiche accuratamente imbastite, in cui corpi e tracce del massacro diventano gli ingredienti di una perversa e disumana ricerca estetica. La stessa perseguita dal personaggio interpretato (magnificamente) da Castro, che diverrà nel corso della storia una sorta di incarnazione di Popper.

Taciturno e introverso, Pedro attende come un personaggio di Buzzati che qualcosa accada attorno a lui; nel corso del racconto lo vediamo per gran parte del tempo portare la sua attrezzatura avanti e indietro, dentro e fuori le case, tra le pianure e in mezzo alla neve, cercando elementi da catturare mentre il signor Porter tarda a manifestarsi e il matrimonio sembra non arrivare mai. In questo lasso di tempo Pedro finirà per ritrarre più volte la promessa sposa, impiegandola come modella sensuale nonostante la sua tenera età. Il gesto non passerà inosservato e sarà punito con l’esilio di Pedro nelle lande più isolate del luogo, dove si consuma appunto quel genocidio che il fotografo avrà modo di immortalare con le sue composizioni. È così che Court mette in relazione due tipi di corpi, uniti da uno sguardo abusante: la figura seminuda della bambina distesa sul letto e avvolta da veli e ombre sinuose è il contraltare degli spogli cadaveri indigeni riversi al terreno, due poli di quello spettro scopico in cui considerazioni etiche e morali vengono accantonate per seguire l’obiettivo della pura grazia estetica. Non a caso, per descrivere Pedro e il suo appetito vampiresco, Court cita sia Popper che Lewis Carroll, grande scrittore certo ma anche controverso ritrattista di bambine.
Blanco en blanco è quindi un film che si interroga, in modo vivo e particolarmente coinvolgente, sull’atto stesso di fare cinema e sulle responsabilità etiche insite nel processo di cattura e/o costruzione delle immagini. Del resto, se il cinema è (anche) sguardo morale sul mondo, ogni immagine è frutto di un punto di vista, di un patteggiamento tra l’occhio e il reale che non deve certo rispondere a regole preordinate ma nel quale i concetti di etica ed estetica precipitano a volte in una vera e propria collisione. Théo Court, tenendosi ben lontano da qualsiasi esposizione moralista, riesce a calare il racconto al centro di queste tematiche, volutamente irrisolte e il cui, eventuale, esito viene affidato allo spettatore. Di suo firma uno splendido affresco storico che diviene il campo di una riflessione metalinguistica non nuova certo ma mai banale, e che si allaccia nella seconda parte con quel ribaltamento dei rapporti tra wilderness e civilization che è tipico del miglior western crepuscolare. Pedro e gli sgherri del signor Porter infatti calano nella terra incontaminata e selvaggia dei nativi portando con sé la dimensione, le tecnologie e la violenza dell’uomo occidentale, che nulla ha di civilizzato ma anzi si fa totem di una brutalità sadica e cieca che parla la lingua scientifica dello sterminio. Blanco en blanco si perde con i suoi dubbi irrisolti nello spazio selvaggio della frontiera, luogo liminare in cui l’umanità si pone a confine con sé stessa svelando istinti bassi e oscuri.