TRAMA
Il dittatore cileno Augusto Pinochet è un vampiro di duecentocinquanta anni. Ormai stanco della sua vita, vuole finalmente morire dopo il disonore e le crisi familiari che ha causato.
RECENSIONI
«È piuttosto incredibile, ma non è mai stato raffigurato in film e serie tv, non è mai stato oggetto di fiction». Lo dice Pablo Larraín a proposito di Augusto Pinochet, corpo assente ma presenza ossessivamente costante nel cinema del regista cileno: il suo spettro, e quello della dittatura militare che ha scavato un trauma nel paese, infestava la trilogia Tony Manero, Post Mortem, No - I giorni dell’arcobaleno. Larraín ha sempre girato attorno alla figura del dittatore, fino al corpo a corpo di El Conde, dove finalmente fa entrare in campo, da protagonista, Pinochet (con il volto di Jaime Vadell). Ma anche nell’incipit nel film si avvicina al conte passando attraverso oggetti e fotografie prima di riprenderlo a figura intera, agonizzante su un letto, e “porzionarlo” con dettagli sugli occhi, sulla repellente dentatura munita di canini affilati, sulle unghie di una mano, su un orecchio; solo dopo questo breve indugio posa la mdp sul suo viso con un primo piano. È qui che comincia l’origin story del vampiro Augusto Pinochet: nato Claude Pinoche in Francia sotto re Luigi XVI, ha assistito alla Rivoluzione francese decidendo poi di «usare i suoi poteri per combattere tutte le rivoluzioni», fino a bramare il ruolo di comandante, scegliendo il Cile come luogo ideale; è sopravvissuto di epoca in epoca assaggiando il sangue di persone in ogni parte del mondo (il peggiore pare essere quello del Sud America, «il sangue dei lavoratori», con «un bouquet plebeo») e, dopo aver finto la sua morte nel 2006, si è ritirato in una villa isolata in Patagonia. Ora ha 250 anni e sembra voler morire per davvero.
Nel suo El Conde, in Concorso a Venezia 80 e prodotto da Netflix, Larraín parte da una biografia immaginaria e surreale per ritrarre Pinochet, e vira verso l’unico tono possibile per raccontare questa storia: la farsa (lo dice chiaramente la voce narrante del film, la cui identità viene rivelata in un secondo tempo). È smaccatamente farsesco - e a tratti fuori controllo, soprattutto nella parte conclusiva, così affastellata di personaggi, linee narrative, immagini che si ripetono (le teste mozzate) - il teatrino degli orrori che va in scena, con i rapaci figli del dittatore pronti a razziare le ricchezze paterne, una moglie-Lady Macbeth fedifraga, un servitore vampirizzato, una sorta di Renfield forse più meschino del suo padrone (Alfredo Castro, già ambiguo protagonista in Tony Manero e Post Mortem), e una giovane suora in veste di contabile mandata a uccidere il diavolo. Una commedia grottesca che s’impregna di horror e fantastico, visivamente affascinante (le sequenze di volo) e con un bianco e nero che guarda a Murnau e Dreyer (Ed Lachman è il direttore della fotografia), schiava però di una metafora fin troppo letterale (il corpo del potere vive in eterno, si riproduce, lascia in eredità ferocia e cupidigia). L’impressione è quella che Larraín maneggi meglio gli effetti più che le cause, le conseguenze più che l’origine, l’invisibile più che la presenza (è meraviglioso l’orrore fantasmatico, impercettibile ma soffocante, di Spencer), e che trovi insomma la sua perfetta dimensione nel controcampo.