TRAMA
Matty, divo strafatto del cinema hollywoodiano, torna a Miami dopo un periodo passato sul set. Qui incontra Annie, sua compagna, alla quale chiede di sposarlo. Lei non solo si rifiuta, ma, dopo avergli rivelato/ricordato che l’ha costretta ad abortire, lo pianta. Per lui inizia una discesa nel vortice della droga e dell’alcool che lo conduce all’incoscienza. 18 mesi dopo: Matty è a New York e vive con Susan. Si è disintossicato e la serenità sembra finalmente riconquistata, ma un terribile incubo ossessiona la sua mente. Deve tornare a Miami e rivedere Annie per capire che cosa lo tormenta.
RECENSIONI
Dopo The Funeral, The Blackout: film nerissimo, abissale, ancora più stringente di The Addiction, ancora più sbilanciato di Snake Eyes. Scritto insieme allo psichiatra Christ Zois e all’amante Marla Hanson, Blackout muove da un’idea cinefila (l’Hitchcock di Vertigo come scintilla iniziale) per deragliare immediatamente in diario intimo, in spudorata trascrizione autobiografica (il film mette in scena, stando alle dichiarazioni di Matthew Modine, la rottura tra Abel e Marla), complicata da una riflessione sui limiti della rappresentazione tanto incerta e velleitaria quanto affascinante. Acclamatissima star hollywoodiana, Matty (Modine) sacrifica tutto all’apparenza, facendo della sua vita un gigantesco schermo su cui proiettare desideri senza responsabilità o profondità: si sballa di brutto, tradisce ripetutamente la compagna e la costringe ad abortire, dimenticandosene subito dopo. Desiderio senza memoria, semplice grammatica libidinale, Matty non regge l’abbandono di Annie (una Béatrice Dalle prorompente e provocante più che mai), per lui il dolore della perdita è letteralmente insopportabile, disperazione da soffocare con alcool e droga fino allo scivolamento nell’incoscienza, cortocircuito allucinatorio in cui il desiderio si installa in permanenza nella realtà. In questo naufragio tossico è spalleggiato da Mickey (Dennis Hopper), proprietario di un locale notturno e sedicente videoartista alle prese con il rifacimento hard di una pellicola del 1955: Nanà di Christian-Jacque, già morboso adattamento del romanzo di Zola. Il mefistofelico Mickey fomenta il cupio dissolvi di Matty, sprofondandolo in un baratro di perdizione narcotica che culmina in un “atto puro” e indicibile, irrappresentabile. Cancellazione. Neve televisiva. Pixel. Poi il tentativo di tornare indietro, di riavvolgere il nastro, doloroso, lancinante rewind. La vita ripulita con Susan (Claudia Schiffer, l’immagine raccapricciante della normalità) a New York non serve a niente, a nulla valgono le sedute di psicoterapia, la sola soluzione è tornare a Miami, guardare in faccia la verità. Un video. Di nuovo il monitor, di nuovo pixel, ma stavolta non disgregati e formicolanti, stavolta compatti e devastanti: implacabili. Video della crudeltà (Artaud: “La crudeltà è prima di tutto lucida, è una sorta di rigido controllo, di sottomissione alla necessità”). Di fronte alla purezza del proprio atto Matty crolla, schianta, frana, sperimentando quel “cieco precipitare verso la perdita, che è il momento decisivo della religiosità” (Georges Bataille). Lo attende l’immensa oscurità del mare: inchiostro, petrolio, fluido atrabiliare in cui immergersi e svanire, ritrovando nella dissoluzione annegante l’unità originale. E il naufragar m’è dolce.
N.B. Blackout può contare sulla strepitosa fotografia, scissa tra squilli di luce al calor bianco e vertiginosi tuffi nella pece, di Ken Kelsch, sulle musiche “cool” (virgolette di disprezzo per il termine) di Joe Delia e Schoolly D sporcate dallo stesso Abel e su un pezzo “electric and loud” (qui le virgolette sono di disprezzo per la band) degli U2 (Miami). Inoltre per la prima volta, grazie al sistema AVID, Ferrara può controllare direttamente il montaggio e la stratificazione delle immagini (Blackout è un film fortemente incardinato sulle sovrimpressioni e sulle dissolvenze incrociate). Ah dimenticavo, c’è anche il superamento delle interdizioni formulate da Bazin in Morte ogni pomeriggio, quelle che sanciscono il divieto di riprodurre l’amore e la morte. Indovinate un po’ quale medium è incaricato di violarle? Un film non sottostimato: affondato.

Spirali autobiografiche per baratri autodistruttivi che l’autore ben conosce a causa di tossicodipendenza e alcolismo, in un cinema attratto, come sempre, dalle lusinghe del peccato e dalla redenzione, attraverso un alter-ego (Matthew Modine) perduto all’Inferno nella sovrapposizione caotica di incubo e realtà, in una dimensione allucinata restituita in modo straordinario, manipolando il materiale cinematografico con montaggio caotico, sovrimpressioni, voci off, flashback, insert video e modi da Cinéma vérité work-in-progress (dialoghi, recitazioni e cinepresa cassavetesiani). La ‘Sodoma e Gomorra’ di turno è la Miami di Oltre Ogni Rischio (e Miami Vice), il degrado s’esprime soprattutto attraverso le perversioni sessuali, il luogo privilegiato per la corruzione del corpo e della mente è l’ambiente dello spettacolo di Occhi di Serpente, di cui torna anche il meta-cinema a rischio di pretenziosità. Dopo una partenza greve e vacua, Ferrara avviluppa sempre più lo spettatore nell’urlo disperato di un uomo senza identità, che scopre verità scioccanti rivedendo in video i frammenti della propria esistenza, conoscendosi con la psicoanalisi e l’analisi degli incubi o non riconoscendosi sentendo la propria voce registrata. È come se i medium si facessero carico della verità mentre un altro “doppione” di Ferrara, il personaggio di Dennis Hopper ossessionato dal sesso voyeuristico e dal rifacimento hard del Nana di Christian-Jaque, sgrida il protagonista come fosse un bambino irresponsabile. Il cinema ha salvato Abel Ferrara ma sono sempre gli affetti ad andarci di mezzo in quest’angosciante, cupa dipendenza dove, come dice Modine, “Mi sembra di essere in un film di vampiri” (The Addiction) e si torna a tirare coca seduti nel retro dell’automobile (King of New York). Due attrazioni femminili, l’eletta e la seduttrice: la mora e provocante Béatrice Dalle, quale richiamo incolpevole della sregolatezza e del proprio lato oscuro (che, allegoricamente, tenta di “strozzare”) e l’insolitamente semplice, acqua-e-sapone Claudia Schiffer quale angelo della salvezza. Uscito VM18 per sessualità esplicita (il rapporto saffico ripreso da Hopper), vede un Ferrara all’apice della maturità artistica, che nel finale si getta in un mare amniotico primigenio, senza far sapere se è per un nuovo battesimo, un purgatorio ricercato o un’arresa totale.
