TRAMA
Ultimo decennio di vita, poesia e morte della giovane poetessa milanese Antonia Pozzi cui dove il film tributa memoria della persona -donna, poeta e alpinista- il titolo ne oblia il cognome, liberandola dichiaratamente da un contesto socio-famigliare che fu in realtà ineliminabile nella sua vita, chiamandola soltanto e finalmente, “Antonia.”. Punto. E poi tutto il resto.
RECENSIONI
Ritrarre un poeta -ben più che uno scrittore- implica un passaggio obbligato attraverso la sua poesia, dunque una necessaria scelta di rappresentazione che mette in relazione immagini e parole. Si può far coincidere la persona con i propri versi, separarli nettamente, porre enfasi sul momento creativo o celebrare la parola poetica nella sua aura sempiterna: comunque sia, si tratta di un'operazione ardimentosa, che può sfociare nell'idealizzazione del personaggio-persona-poeta, o ricondurlo a una quotidiana, terrena sobrietà, nel bene e nel male in entrambi i casi. Dare collocazione alla parola è dato ineliminabile di questo processo.Il recente Leopardi “Favoloso” di Mario Martone (Il Giovane Favoloso, 2014) era, appunto, raffigurazione lirica, in cui il poeta e il suo contesto, dalla scenografia, agli sguardi, ai paesaggi, diventavano teatro poetico, messa in scena idilliaca, parola-filtro (magico) dell'immagine e i versi, nella recitazione intimistica dell'ottimo Germano, pronunciati ad alta voce, ma liberi dall'enfasi declamatoria. Antonia., al contrario, opta per un cartaceo silenzio.
La poesia è pagina scritta, emerge per necessità e per illuminazione (dell'animo e della fotografia, curata da Sayombhu Mukdeeprom, lo stesso di Lo zio Boonmee che si ricorda che vite precedenti, nonché di Le Mille e una Notte di Miguel Gomes, imperdibile trittico sul Portogallo odierno), è parte di una composizione ricercata di elementi scenografici (l'elegante ricostruzione d'epoca, fine e dettagliata, opera di Bruno Duarte, scenografo in passato del Gomes di cui sopra) e costumistici (gli abiti realizzati da Fendi su disegno di Ursula Patzak, già costumista teatrale per Martone e poi al cinema per il citato Giovane Favoloso). Un intreccio di maestranze che sarebbe riduttivo chiamare “tecniche”, testimonia una volontà -decisamente concretizzata- di realizzare un lavoro accurato, attento; nella forma come nel contenuto: non vi è tributo pedissequo, ma precise scelte anche nello sviluppo biografico; non c'è freddezza compositiva, nonostante il rischio, né forzature languide; non assistiamo a femminei turbamenti, né rinunciamo alla sensualità del corpo, dei gesti, della bellezza delle mani, del contatto a piedi nudi con la nuda terra; il paesaggio e l'amore non occasionano svenevolezze e la montagna non è idealizzazione misantropica o rito contemplativo, ma impegno fisico e comunione con la natura. E' più un dono che un abbandono quello che fece della donna un poeta che deve «accettare di esserlo». E il donarsi è forte nei versi di Antonia, diretti, ispirati, intensa offerta di sé. E' invece nell'agire per sottrazione e per pulita eleganza del quadro che il film non si offre, si “pone”, ma non si offre e rischia di farsi descrittivo. Resta sospeso nel suo dirsi e si dice silenzioso fin dal principio, nel presentarsi attraverso l'inquadratura dell'Ombre di Rodin, Rodin al quale già un poeta -e scrittore- uomo dalla tensione elegiaca e dalla religiosità immanente, si legò in un rispecchiamento simbolico e celebrativo, ed è il Rilke che apre il suo trattato sullo scultore citando Pomponio Gaurico «gli scrittori operano con e parole, mentre gli scultori con le cose». Dove scrittura e scultura sono “le parole e le cose”, il cinema che le associa è l'azione, il gesto vitale che tiene memoria e dà movimento. Arte novecentesca per eccellenza, quando parla di poesia non può non affrontare quell'assenza del verbo lirico, della “quadratura del cerchio” assicurata dal poeta-vate che per ragioni storiche non poteva e non è potuta più esistere, non può non riferirsi a quella «parola che non può essere chiesta», manifesto di un'indicibilità poetica dichiarato da Montale, quel Montale che, nelle parole di Carlo Salinari «contemplava virilmente, a ciglio asciutto il dolore», Montale che vide in Antonia Pozzi il messianico ritorno di una «verità» di una «naturalezza», «dello stile che non sembra stile» che non le fu mai riconosciuto in vita. Che è poco riconosciuto tuttora. Tutto questo, nel film, c'è.
Nel 2009 la regista milanese Marina Spada presentava nella sezione Giornate degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia il film documentario Poesia che mi guardi, girato fra Pasturo, Milano e Chiaravalle, che ripercorre i luoghi di Antonia e la cerca nelle strade e nell'aria che le appartenevano, in cui la recitazione in prima persona dei versi diventa appropriazione e reviviscenza della donna, del poeta, infine della poesia stessa: diventa discorso su cosa sia o non sia fare poesia oggi. Idea buona, realizzazione che non beneficia del suo impianto classico, il discorso recupera una figura dimenticata, cercando di trarne l'essenza. E' quell'essenza, nucleo stesso di un poeta e della sua poesia che, se già è difficile da afferrare, è perfino un azzardo rappresentare. E' quell'essenza che non è del tutto chiaro se Ferdinando Cito Filomarino abbia realmente colto, ma che di certo ha raccolto, interpretato, restituito con serietà, è quella parola novecentesca messa in statua e messa in scena e in scenografia che merita di essere ascoltata, perché non teme il proprio silenzio, come tutto ciò che ha molto da dire. E, trattandosi di un esordio registico, è proprio quello che ci si augura.
