TRAMA
Cooper accompagna l’adolescente Jody all’attesissimo concerto di Lady Raven, che ha aggiunto una data in più al suo tour. Quella che sembra l’occasione per una bella giornata padre-figlia è tutta una trappola per arrestare l’uomo, che dietro le sembianze del comprensivo genitore si rivela in realtà un temibile serial killer: “il Macellaio”.
RECENSIONI
Tra i tanti meriti(?) di Shyamalan, c’è quello di aver portato al grande pubblico il discorso sull’autore, la riflessione teorica, lo svolazzo semiotico. Chi(unque) va al cinema a vedere “l’ultimo Shyamalan” ha fatto i compiti a casa, è preparato, sa cosa aspettarsi, sa cosa vuole (e magari non vede l’ora di dire la sua). Se ci si pensa, la prima, duplice Trap(pola) è questa: da una parte, il regista è intrappolato nel suo cinema così caratterizzato e riconoscibile (una volta si sarebbe detto autoriale), dall’altra lo spettatore è intrappolato nelle sue aspettative e guarderà il film con occhio più o meno volontariamente critico, difficilmente seguirà semplicemente il flusso narrativo ma cercherà di intuire fin da subito quale sarà il trucco, la svolta, il colpo di scena, l’agnizione, la shyamalanata.
Poi c’è la trappola del critico/recensore che non potrà non tener conto né della trappola 1 (registica) né della trappola 2 (spettatoriale) e che quindi dovrà cercare di fare un discorso il più possibile obiettivo ed esaustivo, senza cadere nella trappola a sua volta duplice della: 1) ripetizione del già detto (con autori così strutturati si rischia sempre di scrivere lo stesso pezzo); e della 2) (legata alla 1) volontà di liberarsi da griglie interpretative sclerotizzate per avventurarsi in discorsi originali che però rischiano di mancare il punto.
Ecco, io ho l’impressione che Shyamalan, nel suo ultimo film, parli proprio di tutto questo. Sia chiaro: ogni suo film, da Il Sesto Senso in poi, può essere letto (o “si è portati a leggerlo”, altra trappola ermeneutica mica da ridere) come un film sui suoi film ma stavolta non finge nemmeno (di fingere) di fare cinema al grado zero e, fin dal titolo, ci dice esattamente cosa sta facendo. Di più: svela il colpo di scena prima ancora che il film inizi, ossia nel trailer: che Josh Hartnett è Il Macellaio lo sappiamo prima ancora di entrare nel cinema. Se ci si pensa, è molto obliqualmente hitchcockiana come trovata. Hitch iniziava a vivere i suoi immancabili cameo come… una trappola e, preoccupato che lo spettatore si distraesse troppo durante la visione, iniziò ad archiviare la pratica a inizio pellicola così da non rovinare la visione da un punto di vista, diciamo, attentivo, tipo: ok, lo abbiamo visto, ora godiamoci il film. Però: lo spettatore di Trap si gode davvero il film come un normale thriller? Shyamalan ha evitato la trappola o ne ha solo costruita una più ingegnosa? E se non fosse quello il (falso o non-) colpo di scena? Metatrappola? Trappola al cubo? Non se ne esce. Nessuno ne esce, alla fine.
Fuori dalla trappola ab initio – quindi/ma ancora più intrappolati – si segue il film guardinghi fino al sospettoso, cercando di ca(r)pire la trama che sottende la trama, più che la trama stessa. E’ una forma di suspense affatto peculiare e in un certo senso nuova, intra- ed extradiegetica, che ci accompagna dall’inizio alla fine. Trap diventa, di fatto, un lungo, diluito, dilazionato colpo di scena, un frattale fatto di colpi di scena più o meno piccoli, più o meno importanti, più o meno veri. C’è un’atmosfera strana, è tutto complesso (senza essere complicato). Prendiamo Hitchcock (molto citato, quando si parla di Shyamalan, lo abbiamo già citato anche qui), c’è? Nella prima parte, direi che c’è, filtrato e magnificato dalla lente di De Palma. Impossibile non pensare a Snake Eyes – Omicidio in diretta con riproposizione “condensata” di un campo/controcampo [in origin(al)e negato] Hartnett/Cage su una arena affollata, irta di insidie/trappole per il protagonista. Così come sono depalmiane alcune scelte narrativo/registiche antinaturalistiche, interessate solo all’effetto principale ma noncuranti degli effetti collaterali: quando Il Macellaio si ritrova nel mezzo di un briefing della polizia nel quale si danno istruzioni su come dargli la caccia, l’atmosfera diventa sospesa, irreale. Possibile che nessuno si accorga della sua presenza? E se qualcuno se n’è accorto, possibile che si continui a parlare di argomenti così sensibili di fronte a un sostanziale sconosciuto (un esempio tra i tanti in cui la credibilità viene sacrificata sull’altare di altro)? E c’è ancora il De Palma hitchcockiano di Raising Cain –Doppia Personalità nel dialogo in auto tra Il Macellaio e Lady Raven, quando questa sembra aver trovato la chiave psicologica/psicanalitica per fregarlo facendo leva sui suoi traumi freudiani pregressi, in uno dei molti micro-colpi-di-scena-non-decisivi che costellano il film.
Film sostanzialmente bipartito che vede proprio in questa bipartizione il vero trick (no ending) shyamalaniano, più ancora di quello, per così dire, finale (perché un’agnizione c’è: la moglie sapeva ed era stata lei ad allertare la polizia); prima parte dal posizionamento spettatoriale scomodo – siamo portati dalla sceneggiatura ma più in generale dal Cinema a parteggiare per il Protagonista Cattivo -, svolta centrale (sembra un possibile finale) in cui, di nuovo hitchcockianamente (Psycho), cambiamo punto di vista e un personaggio fino a quel momento non-personaggio – Lady Raven – acquista subitanea personalità/importanza diventando il nostro referente sullo schermo.
Prima di (provare a) chiudere il discorso, una parola su Shyamalan regista, che si conferma un vero Maestro da molti punti di vista: lontano da svolazzi gratuiti, movimenti di macchina arditi o punti di vista eccentrici, è essenziale e misurato ma perfetto. L’impressione è che sia tutto dove deve essere, esattamente come deve essere, senza inutili distrazioni, senza niente di troppo, e in quanto ad abilità nella costruzione visiva della suspense non mi pare abbia molti “contendenti” nel cinema contemporaneo.
Difficile trovare un finale soddisfacente, alla fine nemmeno Trap, ce l’ha, un finale soddisfacente, allora possiamo uscire dalla trappola della chiusura dicendo che forse è un bene che la recensione finisca per somigliare all’oggetto di cui parla, un po’ ondivaga e magari irrisolta, senza chiusura o chiosa ché tanto, nel bene e nel male, stavolta quello che si voleva dire si è (già) detto.
Qualcuno (chi?) ricorderà quella del 2024 come un’estate triplicemente shyamalaniana. Prima Ishana, con il suo The Watchers, poi Trap, sodalizio artistico fra padre che incarna la sacra trimurti regista-sceneggiatore-produttore e l’altra figlia, Saleka, nel film alter ego di se stessa in qualità di pop star-influencer dal cuore d’oro.
La famigghia dunque tanto nell’extradiegetico quanto nel filmico riassume il principale ordigno ideologico-narrativo del Nostro, la magnifica ossessione (locuzione questa che trasuda, bleah, spocchia cinefila) eviscerata di film in film secondo uno schematismo sempre più plateale. È che Shyamalan è in fondo un regista autenticamente infantile, cui si rischia di perdonare un po’ tutto. Facciamo per capirci. Se Trap solleva un problema teorico questo è, a nostro modestissimo avviso, anzitutto il seguente: cosa avremmo detto del film se lo avesse concepito e diretto un altro? Non lo avremmo, probabilmente, liquidato, e forse malamente? Se dovessimo cioè attenerci a una delle regole auree dell’esegesi tradizionale, quella per cui – greimasianamente – “fuori dal testo non c’è salvezza”, allora come potremmo “salvarlo”? D’altro canto, al contrario, il film è di Shyamalan, lo sappiamo, siamo in un certo senso costretti a leggerlo in questa prospettiva, a filtrarlo secondo una cifra specifica, quella stessa che colloca il regista in uno strano, senz’altro interessante posizionamento. Shyamalan è a tutti gli effetti un autore, ma anche l’esatto opposto rispetto a quanto chiederemmo a un autore; il suo cinema rappresenta un’idea, riconoscibile, ma è anche un cinema a-politico, giocattolesco, inverosimile. Un cinema innocuo, divertente, manifestamente superficiale. Un cinema la cui superficialità non è il frutto di qualche masturbazione hipster, ma l’espressione di un animo puro e in un certo senso, appunto, fanciullino. Ed ecco che allora gli exploit trash di Trap, le sue voragini drammaturgiche, la sequela sempre più surreale di improbabilità che vi sono inanellate, se messi a sistema nella galassia shyamalaniana diventano perdonabili perché assolvono a una funzione primigenia e in un certo senso dimenticata: ci divertono (nel senso più etimologico possibile, facendoci allontanare dal mondo di fuori la sala). E lo fanno chiedendoci anche un inusuale sforzo, nella torsione ermeneutica necessaria per: a. non solo sospendere, ma prendere a colpi di mazza chiodata l’incredulità; b. non derubricare a scemenza tutto quanto, ma anzi adoprarsi per trovare un senso proprio laddove il film urla, piagato, di non essere preso sul serio.
Veniamo ora allo specifico. Cosa succede in questo Trap? Più meno quello che ci aspettavamo dal trailer, già online da molti mesi. Papà Cooper (un ipertrofico Josh Hartnett, perfetto nella sua plasticità) e figliola Riley vanno al concerto della pop star del momento, la talentuosa Lady Raven (Saleka). Lui, presentatoci come un perfetto genitore, è in realtà il Macellaio, terribile serial killer di cui tutte le cronache parlano da tempo, e tutto il concerto è una gigantesca trappola per acchiapparlo, ordita da una profiler raccontata come una luminare, che naturalmente ne sbaglia una dietro l’altra (mettendo a repentaglio l’incolumità di molti, peraltro). Ma Cooper è abile, e non si farà catturare così facilmente, aiutato da una straordinaria intelligenza, un provvido estro per l’improvvisazione, e una cornucopia di falle di sceneggiatura miste a qualche deus ex machina. Poi, sì, c’è il colpo di scena. E qui ancora si ammassano le domande. Non è forse l’attesa del colpo di scena la prova che il colpo di scena non è più un colpo di scena? Arriverà un’era post-shyamalaniana in cui il Nostro ci stupirà con l’unico vero colpo di scena possibile, cioè non metterlo? E una tale eventualità è da auspicare o da temere?
Di per sé comunque il film sarebbe un thriller, fondato anche su un presupposto interessante. L’idea di ambientare tutta la storia in un palazzetto, in cui è in corso un concerto, che costringe gli spettatori a sorbire-subire, volente o nolente, l’intera scaletta di Lady Raven, non è malaccio. Se non fosse che, ahinoi, tutta la storia non è ambientata nel palazzetto, subendo nella seconda metà il film una virata domestica, a completare il paradigma familistico. Il punto però è: un thriller è veramente tale se non crea alcun tipo di suspense? E qui veniamo all’ultima, essenziale, considerazione, che di nuovo ci costringe a uscire dal film, alla faccia della stantia regola greimasiana. Già, perché ieri sera, nella sala mediamente piena – pur nel pieno di Agosto – urletti e fiati sospesi si percepivano con chiarezza. Il che significa che forse siamo noi ad avere assunto, involontariamente, la postura inesatta; siamo noi ad aver caricato Shyamalan, il bambino Shyamalan che mette in scena un posticcio conflitto edipico da manuale delle medie, di aspettative; siamo noi a voler cercare a tutti i costi questo o quel metalivello, la compiutezza di un discorso che non resti nell’aposiopesi, il forbito e puntuto arzigogolo sul dispositivo cinematico e i suoi tic. Al pubblico meno maniacale, al pubblico forse vero, Trap ieri è piaciuto vederlo; al regista, i cui occhietti simpatici non ci vengono negati nemmeno questa volta, nel consueto hitchcockiano cammeo (apoteosi dell’inverosimiglianza per il ruolo assunto), Trap è piaciuto scriverlo e girarlo. E noi ora ci troviamo qui, non volendo essere né fan né demagoghi, nell’imbarazzo della nostra posizione, nella coscienza dei limiti del nostro sguardo. E d’un tratto realizziamo il colpo di scena: la vera trappola non era per Cooper… era per la critica. TA-DAAAAAN!