TRAMA
Un poliziotto indaga su un omicida seriale soprannominato Dostoevskij a causa delle lettere che lascia sulle scene del crimine. Ossessionato dalle parole del killer, arriva al punto di intraprendere un’indagine in solitaria.
RECENSIONI
Serie o film lungo che sia, Dostoevskij è una creatura che si nutre, fino a cannibalizzarlo, di un immaginario noto: la caccia al serial killer come processo che presuppone la ricostruzione del modo di ragionare dell’assassino - un’analisi in primis psicologica, in cui chi indaga investe sé e il suo vissuto - è un topos che si ritrova, dagli anni 90 in poi, in film, serie, letteratura (di genere e non). I D’Innocenzo battono questo territorio nella piena coscienza delle precedenti esplorazioni di cui è stato fatto oggetto: Dostoevskij in questo è opera coscientemente post perché proprio nell’intento di una rilettura originale di un immaginario riconoscibile (e sulla base di questa riconoscibilità, smentibile), trova una delle sue ragioni d’essere. E, pur nel suo sviluppo paradigmatico (anzi proprio per quello), una nuova vitalità.
Enzo Vitello si mette in caccia di un assassino seriale dopo aver tentato il suicidio, un vero detective che si presenta da subito come variazione nerissima e vagamente fantasmatica sul modello: Vitello, sfioratolo, fugge dal mondo dei morti perché intuisce/sa/sente che della sua morte può fare un altro uso. Presta la sua vita - il suo corpo (è un animale sacrificale, lo dice il suo cognome) - a un diverso destino, a una narrazione ostinatamente orizzontale, un altro romanzo, quello di Dostoevskij, una persona che uccide senza un apparente criterio. Questa dell’apparato letterario evidente - che presuppone svolte, incontri, personaggi principali e secondari, scelte narrative - è un’altra variazione su tema che, dichiarata fin dal titolo, si manifesta chiaramente messa in scena, una realtà ostentatamente immaginata, pittoricamente astratta, deprivata consapevolmente di ogni coordinata: in Dostoevskij dominano luoghi anonimi in cui la civiltà si frantuma in sparse testimonianze di un’umanità che sembra viva per caso; in cui l’urbano non è neanche un miraggio, muovendosi, il film, tra esterni desertificati, squallidi interni uniti uno all’altro dal filo ondivago dell’indagine. Un mondo tarkovskiano sondato con sguardo distaccato, quasi documentaristico, popolato inizialmente da una rassegnata mascolinità, prima di aprirsi a una femminilità fragile e disperata - cruciale, si scoprirà - la cui prima manifestazione, quella di Ambra (Carlotta Gamba), figlia di Vitello, con una tutina che ricorda quella di Uma Thurman/Blackmamba in Kill Bill, sembra il relitto sfigurato di un immaginario cinematografico altro.
Un mondo spogliato di tutto, deperibile, fragile e segnato come la pellicola usata per girarlo. Un mondo labirintico, inconoscibile, senza regole, punteggiato di accidenti. Un mondo abitato da personaggi protagonisti di altri libri paralleli - favolacce che aspettano solo di essere raccontate -, mossi da una scrittura che, fin dall’inizio, sembra autodenunciarsi, nel suo muoversi per step riconoscibili, nel suo ripiegarsi su ciò che ai D’Innocenzo sembra premere di più, l’itinerario indagatore-esistenziale di Vitello. Per questo non sappiamo nulla delle vittime e non le vediamo mai vive: sono solo residui, tracce che servono a profilare l’assassino e il rispecchiarsi di Vitello nella sua figura. Un mondo che alla fine si sfrangia, che vede sgretolarsi il suo nucleo narrativo con i personaggi che si allontanano uno dall’altro, ognuno perso nella sua vita (o nella pura ipotesi letteraria di una vita).
La stessa letteratura nutre il film di dialoghi formulaici e vagamente declamatori che denunciano a tratti l’artificio del teatro. Con un esempio macroscopico (anche programmatico) all’inizio: la lettura del messaggio di Dostoevskij a beneficio di Fabio (Gabriel Montesi), il nuovo arrivato nella squadra, è spudoratamente, dichiaratamente fatta a favore di pubblico. Non si nascondono dietro un dito i Fratelli, ma enfatizzano in termini enunciativi la lettura che il collega Michelangelo fa di una lettera dell’assassino nell’ufficio-palcoscenico. La convenzione (la presentazione del killer) non solo la si frequenta, ma la si incornicia in un quadro drammatico: le luci si abbassano e la voce del funzionario - impostata, stentorea, interpretativa - dà testimonianza del mondo malato di Dostoevskij, mentre quella di Vitello/Timi, in over, vi si sovrappone. E ciò facendo la interpreta, la vive, la somatizza, la riferisce a sé e al suo vissuto. Non un semplice esegeta di quei testo, Vitello, più un lettore affamato in piena immedesimazione nel testo. Una lettura compenetrata, una recita dichiarata che si sovrappone a quella di Michelangelo. Una performance, insomma, come tale né realistica né irrealistica, punto di incontro tra personaggio (Dostoevskij) e spettatore, personaggio (Dostoevskij) e attore (Michelangelo, in primo grado, Vitello, in secondo, Timi in terzo). E tra personaggio (Vitello) e personaggio (Dostoevskij) poiché il rispecchiamento tra il nichilismo di chi investiga e di chi è oggetto di investigazione viene lì letteralmente (di)mostrato.
Vitello è un uomo prima che un detective, uno che nell’indagine si getta anima e corpo e che nel caso che affronta trova la propria anima e il proprio corpo. E nel killer il suo gemello.
Come in un giallo nordico, come con l’Harry Hole di Jo Nesbø, un altro rottame umano che, per non affondare, galleggia nella sua detection. In fondo gli omicidi di Dostojevskij non hanno un criterio perché offrire la possibilità alla spettatore di ricostruire una logica distrarrebbe dal punto, che è quello dell’intima filosofia, del buco nero col quale si confrontano le vite gemelle dell’investigatore e dell’assassino. Perché le verità a cui porta l’indagine di Dostojevskij non hanno niente a che fare con indizi, prove, ricostruzioni.
Come in L’elemento del crimine di Lars von Trier (anche lì un mondo a sé - tarkovskiano ça va sans dire -, un altro labirinto che nasce e muore nella narrazione, rilettura marcescente del parametro; anche lì un gemellaggio tra detective e assassino, anche lì la psicanalisi), un titolo che mi pare sottilmente serpeggiare in tutto il film-serie, implicando, citando, sfiorando di rimando, Welles, Quinlan etc. Ma i riferimenti sarebbero troppi (persino Il silenzio degli innocenti: quel montaggio fintamente parallelo) che i D’Innocenzo, con tutta evidenza, hanno la stessa voracità di Xavier Dolan, cibandosi di tutto quello che li affascina e che possa foraggiare un talento finalmente (per il cinema italiano) diseducato, fuori dalle scuole, senza disciplina. Che si perfeziona nella prassi. Chi in Italia girerebbe una scena come quella del confronto tra Vitello e la figlia nella camera d’albergo? Chi concepirebbe, per il proprio eroe (o antieroe che sia), una ferita interiore così infetta e purulenta? Una determinazione di morte utile così lucida e, a suo modo, perversa? Una messa a nudo dell’anima che arrivi fino alle budella? Un protagonista che proprio nella sua fisicità scoperta (in ogni senso), corrotta, nel suo impasto in decomposizione di carne e sangue, si pone come antidoto a quell’apparato ostentatamente immaginativo, (post)cinematografico, freddamente teorico nel quale è calato? Chi saprebbe consegnare a mille deviazioni - di stile, sostanza, mood - la sua esplorazione del noir? Domande retoriche che spiegano un risultato fuori standard come questo sbalorditivo Dostoevskij.