
TRAMA
In una piccola città sperduta in Islanda, un commissario di polizia in congedo sospetta che un uomo del posto abbia avuto una relazione con sua moglie, recentemente deceduta in un incidente stradale. La sua ricerca della verità diventa ossessione. Si intensifica e inevitabilmente porta a mettere in pericolo se stesso e i suoi cari. Una storia di lutto, vendetta e amore incondizionato.
RECENSIONI
Dal regista di Winter Brothers – oggetto piuttosto interessante premiato a Locarno – un film che allude dichiaratamente al cinema di Chabrol, entrando, con la chiave della menzogna, dell’adulterio e della pulsione violenta, in un ambiente di solida civiltà borghese: Ingimundur, persa sua moglie in un incidente, cerca di riprendersi, ma è ossessionato dal sospetto che lei lo tradisse.
Il cinema di Palmason è sempre assai cosciente a livello visivo: i momenti più astratti di White, White Day sono anche i migliori, come la lunga sequenza composta da piani fissi sulla casa, in cui si ambienta la gran parte delle vicende, in momenti temporali diversi. Si racconta così, per immagini e senza sottolineature, il lento mutare della situazione esteriore in parallelo con il maturare di un dolore interiore che esploderà nel corso del racconto: la ristrutturazione della residenza significando anche la tormentata costruzione di un presente dopo il trauma della perdita. Così quel sasso che continua a rotolare senza trovare alcun ostacolo dice, senza dirlo, dell’inevitabile caracollare degli avvenimenti. O quella ricerca spasmodica del dettaglio significativo, mentre il protagonista narra degli indizi che sembrano confermare l’adulterio della moglie. O quell’insistere felice sui riquadri delle finestre, ad alternare lo sguardo indagatore, che diventa dello spettatore, dall’esterno all’interno e viceversa. Tutti momenti figurativamente potenti che spezzano la narrazione, che aprono squarci significativi alla riflessione, come il sapiente giocare con le atmosfere sospese, i paesaggi naturali e i colori diacci.
Quello che funziona meno, purtroppo, è una scrittura che si affida troppo alla stilizzazione delle situazioni, alla loro resa geometrica, alle svisate ironiche (a volte fortemente squilibrate). Rimane la tensione della resa dei conti, con un interrogatorio all’amante, drammatico quanto basta, in cui il protagonista sembra voler semplicemente capire come costui vedesse la donna, rubare un punto di vista inedito sulla moglie scomparsa. Ma il film, pur nell’algida messa in scena, a volte non trova la misura, inciampa negli estremismi e arriva a un prefinale che urla simbolismo: Ingimundur e la nipote – il saldo ancorarsi alla realtà degli affetti, fuori dall’ossessione – si parlano e si perdono nell’oscurità di una galleria.
Presentato alla Semaine de la Critique, Cannes 2019.
