
TRAMA
Alla fine del XIX secolo, il prete luterano Lucas viene inviato in Islanda, remota propaggine del Regno di Danimarca, per supervisionare la costruzione di una nuova parrocchia. Accompagnato solo da una macchina fotografica e da Ragnar, una guida locale che pur conoscendo il danese si rivolge a Lucas solo in islandese, vedrà la propria fede messa alla prova e sfidata dalle dure condizioni di vita nell’Islanda rurale.
RECENSIONI
Giacomo Leopardi sapeva il fatto suo. Se desiderava illustrare il concetto di "natura matrigna" non a caso la faceva dialogare, nelle Operette Morali, con un islandese. Non c'è paesaggio - in Europa, almeno - tanto preso da rivolgimenti tellurici e dall'ostinazione al deserto dove l'uomo appare una presenza così fuori luogo. È in questo paesaggio liminare, insieme primordiale e escatologico (il suo paesaggio natale) che Hlynur Pálmason, al terzo lungometraggio, decide di ambientare il proprio personale Cuore di tenebra. Godland è un western coloniale che fonda il suo discorso su una antinomia simbolica: la Danimarca è terra civile e nazione d'origine del prete protagonista, faro di civiltà mandato a irradiare luce spirituale (clericale) sulla barbara "terra di Dio" islandese. Come scrive Levi-Strauss, l'idioma è da sempre una delle armi più efficaci di genocidio e conquista. La barriera linguistica e la gerarchia che implica tra il protagonista parlante danese, la guida che conosce la lingua dell'invasore ma si rifiuta di usarla (una frizione tanto assurda da non poter non finire in tragedia) e gli autoctoni che, a detta del prete, "parlano come barbari" si mostrano in innumerevoli scene in cui dialoghi scarni e insignificanti devono essere ripetuti due volte - dei tanti vezzi e impunture di messa in scena di Godland, sicuramente quello che risulta più efficace e parlante.
Il colonialismo passa dalla lingua ma ancora più dagli occhi, dallo sguardo. L'innesco del film è mockumentaristico: il ritrovamento (mai avvenuto in realtà) di sette fotografie - le prime - scattate su suolo islandese dal prete missionario di cui si ricostruiscono le vicende. La fotografia, come spiega Marc Augé, è un surrogato della caccia ed è un atto violento simile a puntare una farfalla con uno spillo nella collezione entomologica: mummifica un istante di una porzione di spazio appositamente ordinata e può essere funzionale a catalogare il mondo. L'atto fotografico di cattura di uno spazio libero ritagliato, organizzato e controllato viene duplicato da un attivismo registico che, innanzitutto, sceglie il formato quadrato 4:3 (pioniere fu Dolan con Mommy, ora è di gran moda) per incastrare e ingabbiare il paesaggio islandese in cinemascope naturale, corollario al tentativo da parte del protagonista di imposizione del senso a paesaggi che affermano solo la loro ottusa grandezza. E non si risparmia alcun intervento, dallo sbalzo a intensità mal di mare durante la traversata marittima fino a lentissimi, estenuanti, apparentemente gratuiti carrelli e rotazioni.
Una stagione all'inferno di Arthur Rimbaud è il tentativo fallimentare di una rivolta metafisica assoluta contro l'Occidente e anche contro la Francia borghese orgogliosa delle conquiste oltremare. Nella sezione "Mauvais sang" il poeta-barbaro prorompe "Les blancs débarquent. Le canon! Il faut se soumettre au baptême, s'habiller, travailler" mettendo la sua ironia perfida nell'omofonia di "canone" e "cannone". L'assoggettamento fisico e ideologico dell'altro al totalitarismo bianco/europeo passa da strumenti che sono indifferentemente di studio e catalogo (la macchina fotografica, appunto), di magnifiche sorti progressive (le strade, la medicina eccetera), di evangelizzazione (il canone) e di sterminio (il cannone). I tempi di Galileo Galilei appaiono lontanissimi: prete e scienziato sono allineati e alleati nell'impresa coloniale. Tuttavia il cavallo portato dal prete-colono, animale simbolo di questo genere di impresa dal tempo dei conquistadores sudamericani, è destinato a farsi carcassa. Come nel primo episodio del Decalogo di Kieslowski la fede assoluta nei computer procura una morte per acqua, così in Godland il guado tentato con hybris, forte dell'infallibilità nel calcolo propria di chi non è barbaro, diventa fatale. La terra di Dio non è per la scienza esatta e neppure per la fede cieca. È la prima di varie vittorie dell'Islanda che inerte resiste. Il prete Lucas, come tutti i missionari, è sostanzialmente un idiota, un puro folle, un invasato che non si rende conto di essere dove non dovrebbe, reclama imperterrito qualcosa che gli è assolutamente alieno e punta i piedi. Il suo personaggio vorrebbe essere herzoghiano senza riuscirci più di tanto. Gli manca il respiro, la grandeur, la statura al di là del bene e del male. Esattamente come al film nell'insieme. La prima sezione picaresca è di gran lunga la più riuscita. Echi herzoghiani, aguirreschi nel rapporto soverchiante tra pionieri e elementi, nella percezione della ripresa in set impervi e pericolosi, nel senso di impresa nel girare. E poi un carattere documentario etnografico quasi casuale, raccolto per strada: le riprese dei paesaggi neri e verdi, dei dirupi e delle cascate, delle eruzioni sembrano appunti visivi di un film fatto man mano. Tutto ciò, purtroppo, dilegua nel virtuosismo estetizzante di cui abbiamo già detto e in uno sviluppo diegetico minimo che sembra un esercizio manierato sui temi del nord protestante represso e castigato senza amore né sesso e del soccombere prima mentale poi fisico dell'individuo di fronte alla natura. Può essere ingeneroso scomodare due dei massimi capolavori dell'ultimo ventennio cinematografico ma alcune affinità visive o narrative fanno balenare Il petroliere di Paul Thomas Anderson e Il nastro bianco di Michael Haneke e di conseguenza l'impietoso confronto con la complessità che qui manca e invece può scaturire da un western mefistofelico con vene di McCarthy dove il diavolo è il progresso oppure dall'indagine su un villaggio timorato di Dio che va alle radici ultime della manifestazione transeunte del male. Il film prende una strada stanca verso la parabola didascalica che ovviamente non può fare a meno di pescare a pieni mani nel repertorio biblico e nell'archetipo di Caino e Abele, versione biblica della rivoluzione cognitiva e dell'effrazione iniziale che diede abbrivio al sopruso dell'uomo sulla natura. Il contrappasso finale è servito con la chiusura rotonda della parabola: il prete venuto a imporre la croce sul paesaggio muore e viene inglobato dal paesaggio stesso, preceduto dal cavallo come in una versione comica di Giovanni Battista e Gesù Cristo. Venuto a portare la gerarchia si ritrova elemento, elementare.

Viaggio al centro della terra: «ed io che sono?»
«Seduto in mezzo a quegli uomini al crepuscolo, capisco che il loro silenzio afferma che il mondo è un’altra cosa rispetto a un paesaggio. Mi domando se qualcosa che ho visto sia un soggetto adatto all’arte. E mi sembra che i più perspicaci siano proprio quelli che distolgono lo sguardo dalle pianure. Eppure, l’alba del mattino seguente allontana questi dubbi, e nel momento in cui non riesco più a guardare quell’orizzonte che mi abbaglia decido che l’invisibile è solo ciò che è troppo illuminato.»
Confesso: quando ho cominciato a leggere Le pianure (Safarà Editore, trad. R. Serrai), romanzo breve – ma il numero di pagine non inganni, data la densità del testo – dell’autore australiano Gerald Murnane, da cui è tratto il brano precedente, ho pensato di trovarmi di fronte a un esemplare di rara astrusità narrativa. La trama era talmente corpuscolata da riuscire a malapena a tirarne le fila, a ricostruire un filo logico. Eppure, allo stesso tempo, la storia era così ordinaria, finanche banale, da non capire in quale sua caratteristica l’autore avesse avvertito un portato di magia, quello che, se ci si abbandona alla sinfonia di parole, è ben evidente nel risultato finale.
Mi è capitato di provare una sensazione analoga con Godland – Nella terra di Dio, terzo lungometraggio del regista di origini islandesi, Hlynur Pálmason, il cui plot si può riassumere in poche parole, anzi pochissime: un prete luterano viene inviato dalla Danimarca all’Islanda, in un’epoca in cui quest’ultima si trovava ancora sotto il controllo danese, per edificare una chiesa.
Ciò che mi è parso curioso è stato notare all’improvviso quante affinità avessero queste due opere così distanti, nello svolgimento e negli esiti, avvicinabili però sulla base di alcune suggestioni, prima fra tutte l’idea – vana – di un’appartenenza che non diviene mai né piena comprensione del contesto o dell’interlocutore, inteso come alterità con la quale stabilire un contatto a prescindere dalla comunanza geografica o linguistica, né controllo dei propri mezzi e istinti. Un possesso, quello umano, che non può realizzarsi, in entrambi i casi, neppure attraverso la sublimazione artistica del cinema – il protagonista de Le pianure è un regista che sta cercando il luogo adatto per ambientare un film, nella vastità delle pianure australiane – o della fotografia, ispirazione concreta del lavoro di Pálmason. Il regista, a questo proposito, sceglie un aspect ratio antico, quasi da istantanea fotografica: il 4:3 all’interno del quale il protagonista di Mommy si sentiva stritolare e che anche nel caso di Godland ci restituisce un senso claustrofobico di oppressione, in netto contrasto con la magnificenza espansa, rettangolare, del paesaggio islandese, un paesaggio che si sviluppa perlopiù in senso orizzontale – presagio di un exitus infausto – senza alberi.
Se Murnane affronta il tema da un punto di vista escatologicamente naturalistico, giocando da maestro con minimi scarti semantici tra uno sguardo indagatore e l’altro, in un paesaggio che sembra sempre identico a sé stesso e comunque indifferente alle necessità, o velleità, umane – le dialettiche tra piattezza e profondità, come sottolinea, in modo calzante, il prefatore, Ben Lerner – Pálmason inserisce esplicitamente nell’equazione, fin dal titolo e forse, in un certo senso, dalla simbologia insita nel rapporto del formato, 1,33 – il principio e il compimento – l’ambiguità appunto di una figura terza, una divinità che non si riesce a ravvisare, se non nello scorrere delle stagioni, dato su cui l’essere umano palesa la propria impotenza (un’impotenza che può diventare stizza o rabbia, quando i cicli naturali ostacolano i suoi intenti).
In entrambi i casi, poi, le vicende portano a un impasse: nessun film sulle pianure potrà essere scritto e il pastore terminerà l’argento, la sostanza della comunione con l’altro, una comunione solo fotografica, unico mezzo per cogliere una qualche specie di essenza che l’osservazione, non amplificata, rifugge o nega.
Lucas, lo straniero, ma potremmo dire l’estraneo, dato che la sua dimensione trascendente lo rende pressoché alieno, sembra via via rifiutare, insieme alla diversità, la propria intrinseca condizione mortale: dov’è Dio? Io sono Dio. Non vi è tuttavia in lui il furore di Aguirre – «Io, il furore di Dio, mi sposerò con mia figlia e fonderò con lei la dinastia più pura che abbia mai regnato sulla terra. Noi due insieme regneremo su tutto questo continente. Resisteremo. Sono il furore di Dio e Dio è con me» – perché, se da una parte sente il potere della conquista – ha fondato la chiesa, costruita sotto i suoi occhi, pezzo per pezzo – dall’altra avverte in un luogo, che percepisce come ostile, non creato a propria immagine e somiglianza, la trappola che fa vacillare la fede. L’estasi folle di Aguirre è quella di un uomo che pretende di compenetrare gli elementi («Se io, Aguirre, voglio che gli uccelli cadano fulminati, gli uccelli devono cadere stecchiti dagli alberi»), Lucas agli elementi, che non può dirigere, che non comprende, soccombe senza che vi sia, per lui, possibilità di fuga. L’uomo che vorrebbe farsi Dio cade preda della propria umanissima fragilità: «Come posso diventare un uomo di Dio?», chiede Ragnar senza che Lucas si sforzi di comprendere le sue parole, pronunciate nell’idioma natio. Ed è di fronte alla confessione, finalmente nella stessa lingua, sulla morte del cavallo – simbolo di sacrifico e di risurrezione – che il flagello dell’uomo, nella pretesa di una supremazia culturale o quasi antropologica, si abbatte sul prossimo suo, amato molto meno di sé stesso (del resto, non è così in qualunque processo di annessione forzata oppure di evangelizzazione, anche se quella raccontata in Godland – Nella terra di Dio non lo è in senso stretto?).
È come se il protagonista del lavoro di Pálmason, a causa di un’impostazione culturale, che nega il predominio delle forze naturali, compiesse un percorso di redenzione al contrario, almeno rispetto a quello di un altro noto pastore (questa volta un pastore vero e proprio) della cultura islandese, quello raccontato da Gunnar Gunnarsson ne Il pastore d’Islanda, uscito in Italia per Iperborea e considerato in patria l’omologo natalizio di A Christmas Carol, di Charles Dickens. In Lucas crescono la frustrazione e la superbia – non si prende abbastanza cura del suo cavallo, un altro cavallo – in Benedikt, una consapevolezza che sta in stretto rapporto con un’intima spiritualità: «cos’è la sua vita, la vita degli uomini sulla terra, se non un servizio imperfetto che tuttavia è sostenuto dall’attesa, dalla speranza, dalla preparazione?».
In questo film, che scorre placido – fin troppo: si spera che la concisione, di solito foriera di intenti chiari, torni a essere chic – e misterioso, c’è in particolare una scena che risulta straniante, se non la si legge nella sua valenza metaforica; si tratta di una sorta di parabola sulle anguille, associate alla lussuria, ma anche all’imprendibilità gnoseologica, dunque all’ignoto (metafisico e non solo, visto che il ragionamento ruota intorno a una serie di incontri/scontri molto reali).
Non abbracciando, per paura o per boria, ciò che non si conosce, dunque uccidendo lo sconosciuto/inconoscibile, è come se l’uomo, la cui matrice filosofica laica sta atavicamente nella sete di sapere, finisse per uccidere – o lasciar morire – sé stesso, la propria parte più autentica, quella scissa da disegni altri. Insomma: la propria identità. L’uomo, preda di un’indole bestiale, è incapace di esercitare il potere della compassione, che gli competerebbe, e di perdonare; Dio, d’altra parte, non se ne cura perché tutto fa parte del flusso eterno, che non vede alcuna specie a primeggiare: cenere alla cenere, polvere alla polvere, fiori dalle carni putrefatte. E così sia.
