Avventura, Azione, Recensione

HERO

Titolo OriginaleYing xiong
NazioneHong Kong
Anno Produzione2002
Genere
Durata93'
Costumi
Musiche

TRAMA

Senza-Nome, prefetto di una piccolissima provincia del regno di Qi viene condotto a corte per render conto delle sue imprese. Consegna le armi dei tre più grandi guerrieri nemici – Cielo, Spada-Spezzata, Neve-che-Vola – al re ed inizia i suoi racconti.

RECENSIONI

Zhang, almeno da Sorgo Rosso (1987) fino a Keep Cool (1997), è stato il regista orientale più premiato dai festival del cinema occidentale di certo favorendo così le successive ondate di autori, provenienti da differenti Paesi. Di questo fermento si è resa conto, con ritardo sistemico e culturale, la grande produzione occidentale, con scomposti tentativi di sfruttamento (il film ad episodi che comprendeva So Close e Missing Gun) rivolti al solo pubblico di neofiti, poi con prodotti spacciati per originali come La Tigre ed il Dragone di Ang Lee, infine con l'aiuto mica da poco di Tarantino e Kill Bill, luogo dell'omaggio. Purtroppo in tutto ciò la distribuzione ha ben raramente provveduto a dar visibilità a film fondamentali per la comprensione di questo fare cinema: chi scrive come, suppone, buona parte dei lettori ha una conoscenza del cinema di genere dell'estremo oriente, del wuxia quando del melodramma, del chanbara e dello yakuza movie, limitata e comunque sempre nemmeno lontanamente paragonabile a quella di un qualunque coetaneo di quelle parti. E se manca l'enciclopedia necessaria alla decifrazione della cornice, nemmeno da pensare quanti riferimenti culturali, sociali, politici sfuggano, inevitabilmente. Per quanto il fiorente mercato dvd possa tappare qualche buco, per ovvie contingenze non si potrà mai ottenere quel continuum che dai romanzi d'ambientazione storica va fino ai fumetti, all'animazione etc. ma solo singole occorrenze, spesso di registi specifici, ma mai le maestranze al lavoro, insomma tutti quelli che ci sono alle spalle di King Hu, per dirla in modo sbrigativo.
Un problema determinante nell'affrontare Hero è proprio cosa si attenda lo spettatore medio italiano da questo film dopo una campagna pubblicitaria massiccia e piuttosto invasiva, per nulla educativa, va da sé. In più Hero tratta di un mito fondativo del Paese più popoloso della Terra e se pure è invenzione originale esso non può che essere carico di simbolismi - magari vieti e pomposi per pubblico avvezzo - storici, grafici, coloristici opachi oltre che, per non farci mancare nulla, delle marche che segnano, ineluttabili, la presenza della visione di Zhang, la sua passione per i color pattern e le figure femminili, anche se in versione scipita, come gli capita da qualche anno. Ciò va tenuto a mente, il pubblico che con me vedeva il film lo ha subìto, non potendo fare altro che esprimersi, quindi, con sbuffi, risate e disappunto in varia forma (anche un sonoro russare, mi pare) e, nonostante il fastidio che si possa provare, anche questo è da mettere in conto, sotto questo nostro cielo.
I caratteri che Spada Spezzata traccia significano "sotto un unico cielo" come i  personaggi ribadiscono più volte ma è anche il nome con cui un popolo chiamò per secoli la propria patria, in seguito all'unificazione, brutalmente omogeneizzante, della dinastia Qi, responsabile anche però della protezione della Grande Muraglia. Il nucleo, tematico ed ideologico, di più facile individuazione ruota intorno a questa contraddizione per cui la vita, la volontà o la vendetta del singolo non ha importanza di fronte all'intuizione di un futuro che pur attraverso il dolore, conduca ad un futuro di certezza; così i personaggi compiono la parabola che è loro propria attraverso la sofferenza, mostrando quanto la perfezione della comunione del singolo con il mondo  e la natura possa essere stupefacente eppure inefficace di fronte alla transitorietà sociale.
La stratificazione del percorso di senso etico interno a Hero è una componente fondamentale vogliamo dire ma rende conto d'una sola frazione di quanto si percepisce, anche considerando quanto rimane nello spettro dell'irriducibile alla comprensione. Ne consegue che questa complessità si scontra frontalmente con una generale impressione di bidimensionalità di cui s'incolpa una trama semplice quanto pretestuosa, tenendo ben a mente le nostre premesse, e l'impianto retorico e rappresentativo prescelto dal regista che ricorda, certo, come tutti hanno notato, Rashomon, ribaltandone le conclusioni sulla veridizione (ma c'è anche, altrove il Kurosawa di Ran). Va anche incolpata la pessima edizione italiana, priva del ben che minimo sottotitolo esplicativo, in cui la cadenza verbale (e la ricerca del linguaggio fatta da Zhang: grammatica arcaica pronunciata con dizione odierna) viene completamente slegata dal movimento, questo di certo il maggior insulto che si possa fare.
Il racconto si ramifica, come nella tradizione della narrazione a cornice, ed ognuna delle sezioni si appropria ci una dominante cromatica: nero per l'ambientazione Qi e la morte, rosso, blu, verde, bianco infine per la verità definitiva, i personaggi vi si legano, ognuno per mostrare un aspetto del proprio agire.
Purtroppo, a questa mia distanza, l'impianto soffre di profonde discontinuità oltre che di semplificazioni, l'attenzione cromatica e materica non si struttura mai, ed il pur pregevolissimo lavoro della macchina da presa (basta vedere il cinemascope favoloso dell'arrivo di Jet Li a Palazzo) si trova nella condizione di dover supportare la comprensione di tipologie di pubblico troppo differenti per poter fungere da collante. Poche intuizioni si perdono nella lodevole intenzione di fare un cinema popolare per una comunità culturale enorme ed internazionale; a noi rimane la delusione per non saper quale sia il  brivido di vedere in combattimento Jet Li e Donnie Yen (Cielo) a distanza di dieci anni da Once Upon a Time in China II ed il piacere di dire che Cantando dietro i Paraventi di Ermanno Olmi andava ben più lontano.