Drammatico, MUBI, Recensione, Storico

ZAMA

Titolo OriginaleZama
NazioneArgentina, Brasile, Spagna, Francia, Messico
Anno Produzione2017
Durata115'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Zama, ufficiale della Corona spagnola, attende una lettera del re che gli conceda il trasferimento dalla città in cui è relegato a un posto migliore. Gli anni passano e la lettera del re non arriva. Quando Zama capisce che tutto è perduto, si unisce a un gruppo di soldati all’inseguimento di un pericoloso bandito.

RECENSIONI

A nove anni dal precedente La mujer sin cabeza, Lucrecia Martel torna a meravigliare e confondere con Zama, un gioiello di disorientamento cinematografico.
In apparenza il film – opera in costume coloniale del diciottesimo secolo – sembra distanziarsi radicalmente dai precedenti lavori della regista, ambientati nell’immediato della società argentina contemporanea. Ma al di là di qualche topos ricorrente (ad esempio, la disamina della schiavitù coloniale che riecheggia gli affondi sulle divisioni di classe e genere dei precedenti film), è più di qualche appiglio tematico ad eludere la differenza. È piuttosto una coerenza di sguardo che rende densa e compatta l’opera della Martel, il racconto (se è ancora possibile definirlo tale) di una totale alienazione esistenziale, storica e sociale, che formalmente prende – o meglio, perde – forma sfilacciando i canovacci della narrazione convenzionale per creare un’esperienza stridente e avviluppante. Esattamente così, non coinvolgente, ma proprio avviluppante per come circuisce lo spettatore per stringere le sue spire attorno alla nostra esperienza cinematico-sensoriale, che nella presa diviene al contempo squisita e frustrante, scomoda e inebriante.
Daniel Gimenez Cacho da corpo e atteggiamento – stanco e dimesso, confuso e sensuale – a Don Diego da Zama, funzionario della corona spagnola di stanza in una colonia impoverita d’oltreoceano. La sua unica volontà, che diventa ossessione, è quella di essere trasferito in un luogo migliore, ma la richiesta viene continuamente rispedita al mittente. Fra il sudore e la salsedine della colonia costiera, Don Diego sogna il freddo irraggiungibile di un inverno europeo e mentre fantastica di “principesse russe avvolte nelle loro pellicce” lo sorprendiamo a spiare, nascosto dietro la vegetazione, una compagnia di donne indigene nude pronte per il mare. Don Diego è un uomo senza virtù né qualità, il suo contributo alle funzioni coloniali è dubbio, non ci sono motivi per trattenerlo, ma neppure per assegnarlo altrove. La sua attesa, e il suo nulla, sono il film.

L’attesa di un evento sempre postposto, tanto sperato quando improbabile, sensazione netta che Martel impone fin dal principio costruendo attorno al personaggio un’atmosfera umida, febbrile, di stagnazione. E attorno a questo niente, tanto rumore ovattato si spreca fra le capanne degli indigeni, l’ufficio del governatore e il salone di una nobildonna civettuola (la magnifica Lola Dueñas), mentre il nome di un famigerato bandito che terrorizza le colonie circostanti, Vicuna, rimbalza di bocca in bocca senza che nessuno riesca a fissarne un’identità precisa, senza che la misura delle sue gesta riesca a trovare mai un riscontro comprovato nella realtà oggettiva. Saltella attorno a Don Diego un balletto di personaggi, nomi e conversazioni non sempre o non per forza sempre chiaro. La confusione si trasforma in un brusio opaco, un’allucinazione visiva e sonora sempre più straniante, cesellata in una struttura di architetture visive che montano scena dopo scena, anche grazie ad un lavoro mirabile sul suono, sia d’ambiente (il mare, il vento, la vegetazione) che sapientemente anacronistico (fischi elettronici, suoni industriali). E così mentre Don Diego incassa l’ennesimo rifiuto alla sua trasferta, un lama appare alle sue spalle, incredibile, mentre un sibilo si fa sempre più intenso nelle nostre orecchie. L’animale si aggira per l’ufficio del governatore con aria beffarda, guarda in camera, si allinea agli occhi sbarrati di Don Diego. Lucrecia Martel non si limita a creare inerzia drammatica e narrativa: il suo obiettivo è renderla assurda, ridicola nella sua stagnazione storica.
Nell’ultimo segmento, Zama propone un cambio di marcia: una fuga dalle asfittiche stanze dei funzionari verso le terre selvagge. Sfiancato dall’attesa, Don Diego si unisce ad una banda di mercenari che si avventurano nella giungla alla ricerca del leggendario bandito Vicuna. Il passaggio dalla stasi all’azione è però fatale per Don Diego, inadatto alla vita. Abbandonato nel suo deserto dei tartari, il suo bisogno di agire viene stroncato violentemente sul nascere non appena gli si rivela innanzi il temibile Vicuna con il suo vero volto: un volto pagliaccesco, montato su un corpo comune dalle movenze femminee. L’ennesimo sberleffo della Martel al senso dell’epica. Davanti alla rivelazione di una certezza, forse la prima nella sua vita, Don Diego viene preso alla sprovvista e vi soccombe.