TRAMA
Lisbona, oggi. Quale segreto nasconde Aurora, l’anziana vicina di Pilar?
RECENSIONI
Al suo terzo lungometraggio, e dopo il già notevole Aquele Querido Mês de Agosto, Miguel Gomes firma un'opera d'incredibile forza visiva; un peana funebre, tra l'ironico, l'onirico e lo mnemonico. Non si assisteva da tempo all'epifania di un'estetica così piana e piena, che non deve niente a nessuno, che innova regredendo e avanza indietreggiando: dal presente al passato, dal sonoro al 'muto'. Ogni tassello, pur avendo un valore in sé (dal sublime primo piano di Aurora sul letto di morte al suo funerale), è necessario all'insieme. Il compiacimento e l'estetismo gratuito sono altrove. Poggiando su un canovaccio elementare (il ricordo di un amore impossibile), Gomes attraversa i generi e le forme, a cominciare dal cinema di Murnau, doppiamente omaggiato (dal titolo al nome della protagonista). Le numerose invenzioni visive e narrative - il film ne contiene quanto tutta la cinematografia italiana dell'ultima decade - non risultano mai, come in gran parte del cinema di ricerca contemporaneo, derivative e 'altrautoriali'; non sono, cioè, scaltre riconfigurazioni din'venzioni altrui (come esempio di 'altrautorialismo', si ri-veda il recente e sopravvalutato Oltre le colline di Mungiu).
L’autore osa la struttura del “film diviso in due”: Paradiso perduto, Paradiso. Forgia la prima parte come se fosse la declinazione (e prefigurazione) onirica e cauchemardesque della seconda, che di fatto è il ricordo rarefatto, sonoro e parlante, benché “afasico”, della genesi degli incubi del presente, preannuncianti la prossima fine. Una fine che è un nuovo inizio. In Paradiso perduto, gli spettri sono detti, verbalizzati (coccodrilli, scimmie, il fantomatico Ventura) o trasfigurati con l’intermediazione del “cinema nel cinema”: nello splendido prologo, in cui la storia d’amore della seconda parte si trova sintetizzata e riscritta in chiave mitologica; nella sequenza in cui Pilar piange in sala sulle note di Lonely Wine di Mickey Gilley, brano che accompagnerà anche il pianto a dirotto della giovane Aurora nella seconda parte. Pilar, donna che vive al servizio dell’altro e sperimenta una solitudine rigettante la passione amorosa, è spettatrice inconsapevole di un passato che informa già il suo presente, quello dell’anziana vicina e della badante di quest’ultima (Santa, nomen omen…).
In Paradiso, gli spettri vivono, ma amputati da una memoria che è inevitabilmente selettiva e parziale. Non si tratta di un Paradiso pienamente 'ritrovato', come il tempo proustiano o, si parva licet, le Distant Voices di Terence Davies, ma di frammenti di un Paradiso tout court, vissuto nel suo tempo e di cui parte del suono è andato irrimediabilmente perduto. L'alligatore non è più l'incorporea prefigurazione della morte, ma una metafora visibile che unisce e divora come la passione che sconvolge Aurora e Ventura. L'oggi è nei e dei giorni di festa vissuti tra vuoti di memoria (il cellulare dimenticato nel frigorifero da Pilar) e vuoti di senso (il gioco d'azzardo); è postcoloniale e sconta, senza sconquassi, le estreme conseguenze del colonialismo ('Shame ONU'). Il passato è invece nei mesi e nelle intermittenze (del cuore): diluito, fluido, sfuggente; è tardo-coloniale e luogo di un'ultima, struggente, Av-Ventura (di genere). Il presente dimentica, il passato (si) ricorda. Paradiso perduto sta in definitiva a Paradiso come la caverna platonica e le sue ombre, echeggiate nello splendido frammento della catacomba, stanno alla luce del sole/realtà: i cocenti raggi d'Africa che evidenziano impudicamente il vero, cadaverico pallore dei coloni. Come in Chocolat di Claire Denis, la colonia è più uno State of Mind che un luogo socialmente e culturalmente connotato. Uno spazio esotico in senso stretto, 'estraneo' e irriducibile; uno sfondo vago e generico in cui gli occidentali deambulano come spettri, presenze transeunti come caduche sono le passioni che vivono, le sole, tuttavia, capaci di animarli. Altro che le presunte stregonerie voodoo della migrante africana Santa: i veri 'demoni' sono i bianchi-morti:
Tra i volti africani di nero abbronzato, il colore bianco della pelle evoca davvero qualcosa di simile alla morte. Io stesso, nel 1891, quando dopo aver passato mesi e mesi assieme a gente di colore, scorsi di nuovo nei pressi della Bénoué i primi europei, trovai la pelle bianca antinaturale di fronte alla fragrante pienezza della nera. Possiamo davvero biasimare gli autoctoni perché considerano l'uomo bianco come una cosa contro natura, una creatura soprannaturale o demoniaca? (Curt von Morgen, À travers le Cameroun du sud au nord, citato da uno dei personaggi occidentali di Chocolat).
Il cinema è l'incubo che abbiamo sempre sognato di vivere. Ed è forse questo il vero tabù - nome del monte africano che fa da sfondo alla storia d'amore - che Gomes ha osato cristallizzare, con il pudore e la saggezza di chi ha già raggiunto la vetta.
'Capolavoro' e/o 'film dell'anno', tertium non datur.