TRAMA
Lawrence Talbot, attore inglese che vive negli Stati Uniti, viene informato che il fratello è scomparso e torna in Galles, nella casa/castello del padre. Da qui in poi tutto si fa confuso.
RECENSIONI
Va bene il rigore filologico a rischio ridicolo involontario. E mettiamo nel conto anche il travaglio produttivo con tanto di avvicendamento registico. Ma Wolfman è qualcosa di improponibile. Francamente, è difficile immaginare qualcosa di più“sbagliato” del film di Johnston: la fedeltà al prototipo e all’immaginario horror che fu è parziale e comunque non ha valore in sé; gli aggiornamenti splatter sono fuori contesto e faranno un fastidioso solletico ai gore freaks; lo spettatore generalista-medio-occasionale si trova davanti una sceneggiatura pasticciatissima, incapace di accendere qualunque tipo di interesse. Dunque,per chi è Wolfman?
Per quanto mi riguarda, la recensione potrebbe anche finire qui. Ho la sgradevole e fallace sensazione di aver scritto già abbastanza. Ma c’è tempo e spazio, magari mi dilungo un po’. The Wolf Man (1941) potrebbe andar bene come exemplum di un certo cinema e di una certa stagione horrorifica Universal(e). E ci siamo. Ma ha senso che un blockbuster very mainstream datato 2010 ne voglia riprodurre schema narrativo (la sceneggiatura è basata su quella di Siodmak), atmosfere e iconologia? L’effetto vintage generato da Del Toro truccato come Lon Chaney, con metamorfosi (not so) old skool curata da Rick Baker (Un Lupo Mannaro Americano a Londra), non rischia di diventare puro, demenziale anacronismo?
Certo, il mediocre mestierante Johnston tenta anche qualche carta un pochino più raffinatamente cinefila (la prima trasformazione ripropone l’attenzione quasi esclusiva della macchina da presa su piedi/zampe, come quella originale) ma non sono certo questi particolari che nobilitano il piacere della visione. Poi ci sono aggiornamenti. Ci sono dettagli moderatamente splatter. La volontà è forse quella di ringiovanire il prodotto, di smerciarlo ai “ragazzi di oggi”. Ma a quale scopo? Il tasso di violenza grafica è ridicolo, non soddisfa nessun palato moderno e finisce solo per stridere con le atmosfere rétro.
Si diceva, infine, della sceneggiatura. La storia è semplice quanto farraginosa nello sviluppo. Del percorso formativo dei personaggi non frega niente a nessuno e gli sviluppi drammatici sono o prevedibili o raffazzonati senza criterio. Come se non bastasse, in sede di scrittura si è visto bene di inserire riferimenti shakespeariani pretestuosi quanto ridicoli, che vorrebbero forse dare spessore e profondità al vuoto pneumatico imperante.
Un disastro. E gli attori lo sanno bene. Benicio Del Toro finge di crederci perché ci ha messo i soldi, ma è raramente credibile, SirAnthony Hopkins ormai ha quelle tre-quattro espressioni con cui sbarca il lunario film dopo film, della Blunt ci si dimentica prima che finisca il film mentre Hugo Weaving non vede proprio l’ora che il film finisca.
Opera segnata da vari problemi produttivi: iniziata da Mark Romanek nel 2008, portata a termine da Joe Johnston con un nuovo sceneggiatore (David Self) e rigirata nel 2009, per alcune scene, dal regista della seconda unità Vic Armstrong (pare che la Universal trovasse troppo violenta la prima versione). Più che una rilettura alla moda autorale, barocca ed eccessiva di un classico (L’Uomo Lupo, 1941), finisce col ricordare gli horror anni cinquanta della Hammer, B-movies seriali, onesti, senza pretese. Un po’ è l’impronta del regista, buon artigiano tutto da riscoprire (qui esagera con l’uso dei suoni amplificati per spaventare ma ottiene un latrato del lupo davvero potente), un po’ (come produttori volevano) è dovuto alla sobrietà del sangue (anche se le frattaglie non mancano), un po’ ad un’impostazione della drammaturgia che non approfondisce la tragedia familiare per non perdere il ritmo del racconto, un po’ ad una sceneggiatura che retrodata la vicenda dell’originale in epoca vittoriana (come molte produzioni della Hammer). Il trucco di Mr. Wolfman Rick Baker richiama la pellicola citata di George Waggner, non rinuncia alle protesi di cui è mago ma si affida anche al CGI per la trasformazione. Anthony Hopkins ci mette del suo per disegnare la figura epica di un padre con nefasta eredità per il figlio: quando entra in campo, il film cambia volto, in positivo, con le sue considerazioni poetiche sulla Luna. È un film piccolo e funzionale, su cui tutti, forse, avevano troppe aspettative: del film del 1941, perde per strada l’atmosfera e qualche figura vincente (quella della zingara era tutt’altra cosa), ma guadagna un’aura tutta sua, d’azione (più copiosa) e da tragedia greca. In DVD è uscito un extended cut di 118’.