TRAMA
Un’aliena dalle fattezze umane viaggia attraverso la Scozia.
RECENSIONI
Nome chiave dell'era d'oro del videoclip (i fatidici Novanta), al suo terzo film, Glazer torna al grande schermo a una decina di anni da Birth. Quello del suo cinema si rivela percorso graduale: Sexy Beast era film di curatissima scrittura con flash immaginifici memorabili; Birth era un ibrido che si muoveva più spregiudicato tra istanze narrative forti e costruzioni visive folgoranti; Under the skin è il passo in avanti decisivo verso un concetto di cinema personale e, da un certo punto di vista, estremo. Sempre aperto a un lavoro che lo assorbe solo quando ha idee serie per le mani (i suoi videoclip, tra i più belli della Storia, non sono un battaglione - e neanche un drappello - e i suoi film sono sempre delle sfide), Glazer culla e fa crescere il progetto di Under the skin concentrando energie e sforzi di anni. Il romanzo di Faber (il cui contenuto sci-fi emergeva gradualmente da una narrazione che, all'inizio, sembrava pienamente realistica) si converte in trip visionario: la trama viene sostanzialmente rispettata, ma, tutto delegandosi alle immagini, la storia viene risucchiata in una suprema, allucinata vertigine; non concede, Glazer, alcuna didascalia o spiegazione, pone lo spettatore al livello della rappresentazione, caricandolo degli interrogativi che essa suscita, e non suggerisce risposte. Il lavoro sulla sceneggiatura, da questo punto di vista, è stato tutto in sottrazione (si è partiti da una fedele riduzione della novella): lo script non narra, dice; non spiega, mostra. Immagina.
Under the skin si rivela allora dimostrazione definitiva di quanto il videoclip abbia contribuito a riportare il cinema su un terreno in cui l'espressione si afferma sul piano della visione, perché, come in un videoclip, con le medesime logiche, il film produce senso attraverso le immagini, non attraverso le parole, e senza destrutturarlo, il suo si afferma come racconto non raccontato, un débrayage continuo. Ma l'opera va oltre questo, rivelando una portata che ha del rivoluzionario, attestandosi come vera e propria proiezione in avanti, ipoteca sul futuro di cui i fondamentali e le poetiche del videoclip non costituiscono solo un richiamo, ma si affermano come istanza cardinale, ne fanno lavoro d'avanguardia che pone come programmatica la necessità della revisione, di una fruizione che si sviluppa in visioni ripetute, non legando l'esperienza dello spettatore al semplice svolgersi di una storia, ma a sensazioni che sono innanzitutto visive (gli stessi dialoghi sono ridotti all'osso [1]), a coinvolgimenti non razionali, ma percettivi, vincolati a una successione di immagini dense che valgono per quello che comunicano, che si staccano dalla contingenza e vivono in profondità. Glazer non porta sullo schermo il romanzo di Faber e non lo illustra: lo usa, lo piega a una logica nuova, lo sottomette a un combinato disposto di cinema e videoarte.
Le avventure dell’aliena che, mimetizzata da terrestre, scorrazza sul nostro pianeta e attira uomini, col pretesto di un passaggio e un miraggio sessuale, appare allora nella forma fuorviante di uno psycho-thriller con protagonista una serial killer che, attraverso gli omicidi, soddisfa un impulso malato, in una pura coazione a ripetere. Ma solo in apparenza, perché in realtà (una realtà che si annida nei fatti e può non essere recepita) non c’è ninfomania e non c’è psicosi: qui si dà conto dello scientifico massacro di una specie animale (vi ricorda qualcosa?) perpetrato da un’altra specie vivente per soddisfare l’effimera fame di un cibo raffinato, la Terra riducendosi a paradossale riserva di caccia. Il tutto attraverso immagini di altissima suggestione (gli omicidi si volatilizzano in dissociazioni metaforiche), momenti di malìa disturbante (l’incontro con il ragazzo deforme, quel poppante abbandonato sulla spiaggia - perché inutile allo scopo -), esaltati da un uso altamente espressionista di una colonna sonora da sturbo (non si avevano dubbi) e di un decisivo sound design, in simbiosi miracolosa con quanto mostrato.
Ma non è tutto. Poiché Glazer adotta una scelta tecnica che è diretta conseguenza del modo di concepire la rappresentazione, nella prospettiva della sua protagonista, di un'extraterrestre che si affaccia sulla nostra realtà, una specie di essere-macchina che si accende e che, una volta in moto, punta dritta al suo obiettivo: il suo non comprendere appieno la realtà che la circonda (che, per lei aliena, è aliena a sua volta), se non per schemi base, le rende il contesto in cui opera indecifrabile, quella stessa indecifrabilità che investe lo spettatore, la cui visione è tarata al livello della protagonista. Dall'esigenza di rendere il punto di vista di un'entità e restituirne lo sguardo, nasce allora il metodo di lavoro che individua un peculiare vocabolario visivo per raccontare la storia: il film è girato con telecamere nascoste, all'insaputa delle persone riprese, senza set prefabbricati; l'aliena Scarlett Johansson si immerge in una realtà effettiva e, come nel romanzo, la suggestione sci-fi si sublima in un contesto realistico (il mondo quale è) senza ricostruzioni fittizie, in una dimensione in cui l'unica finzione sono il personaggio e le sue azioni; l'approccio, tutto sensoriale ed emozionale, si fonda sull'imprevedibilità degli avvenimenti scenici, imprevedibilità cercata e infine catturata in quanto tale. Tutto questo fa di Under the skin il film più rilevante della Mostra veneziana 2013 e uno dei titoli chiave di questi ultimi anni, con buona pace dell'accoglienza, vergognosa, di pubblico e critica in laguna.
[1] Si parla con un forte accento scozzese e, stanti anche le peculiari modalità di ripresa, molti dialoghi suonano incomprensibili. Il che aumenta il grado di distacco e alienazione, la sensazione di interfacciarsi ad una realtà di cui si comprendono solo stralci.
JG in conferenza stampa: «Non mi ha infastidito il fatto che molti dei dialoghi non fossero intelligibili, per me era importante che l'intenzione e il comportamento dei personaggi fossero chiari».