TRAMA
Rudolf Höss, comandante del campo di concentramento di Auschwitz, sua moglie Hedwig, i loro cinque figli e altri personaggi trascorrono la propria quotidianità all’interno della cosiddetta area di interesse (Interessengebiet) di circa 25 miglia attorno al campo, volutamente ciechi all’orrore che si sta consumando al di là del muro che li divide.
RECENSIONI
Di La zona d’interesse ha più senso dire cos’è piuttosto che com’è, frontale come appare nel suo mettere sotto l’occhio dello spettatore la vita di Rudolf Höss, comandante di Auschwitz, nella villetta con giardino in cui vive con la moglie Hedwig e i figli, al confine con il campo di concentramento. Partendo da una rigorosa ricerca dei dati storici, Glazer, posta un’accuratissima ricostruzione ambientale, procede a un'osservazione distaccata, quasi clinica, della vita del nucleo, attraverso il largo uso di telecamere fisse, posizionate nei diversi punti della casa, a restituire il senso di una quotidianità che ha, in quello scorrere sereno, il suo dato inquietante (Glazer: «Il fascismo inizia comunque in famiglia»).
Se il film è tratto dall'omonimo romanzo di Martin Amis, è peraltro categorico nello scarnificarne la drammaturgia, implicando e mai evidenziando un racconto, consegnandosi, come fa, al puro dispositivo. È questo, del resto, il fondamento dell’operazione: lamentarsi, come si è fatto, per la mancanza di una progressione narrativa significa proiettare un’esigenza personale estranea a un film che questa convenzione la rifugge scientemente. Se tentare di fare prosa o poesia sull’Olocausto è operazione difficilissima e sempre ai limiti della pornografia, Glazer, con questa scelta drastica, sembra volerci dire che oggi l’unico modo di esprimersi cinematograficamente sull’abominio dei lager, senza cavalcarlo, sia mettere a rischio il prodotto film, renderlo difficile, ostico, non addomesticarlo a un pensiero comune subito digerito. E non tentare di conquistare l’attenzione dello spettatore con la commozione o con il raccapriccio: piuttosto, invece, sfidarlo proponendogli una rinuncia, che è quella all’intrattenimento, alla narrazione, alla esplicitazione didattica del senso della Storia. Impegnarlo sul serio. Non mostrando il campo di sterminio, ma solo evocandolo, Glazer impone al pubblico di completare il quadro: è in questa indotta ricostruzione mentale - non attraverso le immagini esplicite - che La zona di interesse riesce limpidamente a porsi come un film sulla memoria, una memoria davvero sollecitata, una memoria che si esercita fuori dalle retoriche e dagli automatismi commemorativi che inevitabilmente tolgono forza a questo tipo di esercizi morali. Riprendendo la nota questione del carrello di Kapò - condannato da Rivette nei Cahiers e oggetto del saggio di Daney - mi viene da dire che quelle camere fisse - nel non violare lo spazio dell’orrore e nel negare, allo spaccato domestico che riprendono, qualsiasi enfasi ed effetto - ne costituiscono l’antidoto.
Allo spettatore, dunque, l’elaborare l’incipit al nero, il fumo delle ciminiere, il titanico lavoro sul sonoro, la corolla di un fiore il cui rosso dilaga sulo schermo fino a esaurirlo.
E inevitabili baleneranno in testa i paralleli con il contemporaneo - la propria sicurezza domestica al confine con la tragedia - ché a dettare il comportamento di questa famglia, prima dell’ideologia nazista di cui il marito/padre è strumento diretto, è una certa logica piccolo-borghese che mette il proprio benessere al primo posto rispetto a tutto, fosse anche il massacro di un popolo. Così, quando la madre di Hedwig abbandona la casa, la figlia rimuove l'evento della partenza bruciando il biglietto di commiato nella stufa, forse l’unico gesto davvero metaforico di un film altrimenti ellittico nel suo significare.
E a proposito della madre di Hedwig, così Glazer: «È solo la vicinanza. Per una come lei non è diverso dal comprare una bistecca da Sainsbury's e andare al macello. Sai da dove viene quella bistecca, ma non vuoi davvero stare vicino a una mucca che viene macellata o al suo odore, o avere il sangue che ti scorre sulle scarpe... Non c'è nessun rimorso, nessuna redenzione. Non c'è salvezza in questo film, e non può esserci. Questi personaggi finiscono come iniziano».
Ecco allora che La zona di interesse - per la densità di questa esperienza in equilibrio tra il detto e il non detto, il visto e il non visto - riesce ad essere da un lato un film sulla Shoah semidefinitivo, dall’altro - proprio per la dedizione assoluta con la quale il regista si pone al servizio della sua idea di messa in scena - un ossimorico scontro tra il dato storico e la modalità ipercontemporanea di ritrarlo: oscillando tra la logica del circuito chiuso delle telecamere di sorveglianza e quella voyeuristica a cui la televisione ci ha ormai abituato da decenni, l’opera si risolve in un’avanzatissima, quasi estrema sperimentazione sul cinema di consumo («Anche se l’abbiamo girato nel vero campo di concentramento, non è un film vintage, in costume, da mettere al museo. L’ho costruito con la lente del nostro mondo»), ottenuta attraverso un lavoro certosino (due anni solo per la postproduzione) volto ad ottenere un realismo a suo modo inedito («Sentivo di dover filmare tutto questo come se stessi riprendendo le persone reali»). Del resto l’autore fa film solo quando ha qualcosa di innovativo e importante da proporre [1], vedasi il lavoro sulla prospettiva dell’alieno nel suo precedente capolavoro - noi lo si disse dal giorno uno - Under The Skin (rimando, sul punto, alla recensione di allora) che partiva da un romanzo di Michael Faber anch’esso completamente svuotato e di cui, presupposta la narrazione, si rimetteva in gioco il concetto sul piano del rigorosissimo dispositivo. Prospettiva dell’alieno che qui, in un certo senso, troviamo riproposta nelle sequenze della bambina che nasconde la frutta nei cumuli di terra e cenere vicini al campo, nella speranza di sfamare i deportati ancora vivi; l’immagine in bianco e nero della termocamera - un registro visivo alternativo all’iperrealtà del resto del film - quasi significa una dimensione marziana che conosce la pietà rispetto a quella dell’umanità abbrutita di casa Höss: «È letteralmente l'opposto di tutto ciò che abbiamo visto nel film».
[1] Come faceva il suo nume Kubrick che, ogni volta che decideva di mettere mano alla macchina da presa, era per sperimentare, nel confronto con la materia rappresentata, qualcosa di nuovo, che fossero gli effetti speciali - o la proiezione frontale dell’incipit - di 2001, l’abolizione delle luci artificiali di Barry Lyndon (la luce del Settecento ottenuta con obiettivi e lenti Zeiss), la steadycam di Shining, il realismo documentario che passa attraverso il complesso lavoro sulla pellicola di Full Metal Jacket o il Motion Control di Eyes Wide Shut.
A dieci anni da Under The Skin, film gigantesco con cui non abbiamo ancora smesso di fare i conti, Glazer torna con un/il film che lo eleverà al (meritato, lo diciamo subito) rango di Autore. Al di là dei premi, che lasciano un po’ il tempo che trovano (Grand Prix Speciale della giuria a Cannes, Oscar come miglior film internazionale), La zona d’interesse sembra avere tutto quello che deve avere il film della consacrazione. Sintetizzando molto, sicuramente troppo: c’è il Grande Tema messo in scena con originalità sottrattiva anti-spettacolare, ci sono le peculiarità formali (le mdp manovrate da remoto, che dovrebbero trasformare il set in una sorta di fictional reality, anche se all’atto pratico il film non perde mai eleganza né compostezza formale) e c’è un ottimo cast, scelto con intelligenza e diretto con polso fermo e idee chiarissime (con una splendida Sandra Hüller su tutti, che offre un’interpretazione molto fisica). Tutto bene, quindi? A mio avviso, non proprio.
Il problema di fondo mi pare possa essere individuato nell’ingombro dell’idea fondante: parlare dell’Olocausto senza parlarne davvero, ambientare il film ad Auschwitz rimanendo fuori dalle mura di Auschwitz, affrontare il Male Assoluto sbirciandone il riflesso negli occhi gelidi dei quasi inconsapevoli responsabili più o meno diretti. Essendo l’idea chiara fin dall’inizio, il film rischia di diventare una lunga, elegante, sapiente serie di variazioni sul tema (anche e soprattutto sonore, come nella sequenza in cui il bambino “sente direttamente l’orrore” mentre gioca) pericolosamente monotona, serie che infatti Glazer sembra (cercare di) vivacizzare con un paio di divergenze che però rischiano di deragliare nel didascalico e/o indecidibile: degli inserti sonori a chiarire il concetto si è detto, ai quali vanno aggiunti la side quest della ragazzina polacca girata con mdp termica – forse perché l’unica traccia di “calore umano” in un mondo de-umanizzato? – e il balzo temporale ai giorni nostri – spericolato parallelismo col qui e ora di Auschwitz, forse divenuta fredda e disinnescata meta turistica? -.
A ben vedere, quindi, cercando di tirare le fila, mi pare che quello di Glazer sia sì un film riuscito e interessante ma non privo di problematicità: il Grande Tema rimane ingombrante proprio perché scientificamente rimosso dall’inquadratura; il bagaglio emotivo dello spettatore è comunque un ready made universale che esula quasi dai meriti intrinseci del film, fin troppo freddo, cerebrale e intenzionale; visto il contesto, le parentesi esplicite sono ancora più a rischio didascalia e stonano con il resto, con l’eleganza di molte trovate visive (ad esempio le inquadrature geometriche che escludono con precisione chirurgica l’interno del campo di concentramento, facendo affiorare solo il fumo dei treni in arrivo) che risulta fin troppo estetizzante.
Potrebbe comunque diventare lo Schindler’s List della smaliziata, disincantata e disillusa Generazione Z.
«Non mi interessa ciò che è stato fatto all’uomo, ma che cosa egli fa di quel che è stato fatto di lui».
Jean-Paul Sartre, citato da Franco Fortini ne I cani del Sinai
Scusate il gioco di parole: La zona d'interesse, ultimo Glazer, è giunto in sala glassato. Il primo strato venne steso a Cannes dove, nonostante la mancata palma, la critica che conta l'ha ricoperto di un coro pressoché unanime: questo è il film non solo bello, anche importante. Evviva. Merito del film, ovviamente; merito del tema perché non c'è argomento che più della Shoah fa importanza ed è pure ulteriormente drammaticamente riattivato dalla cronaca; e merito forse anche del più o meno conscio bisogno diffuso pregresso di un film che sia finalmente bello e importante, che segni un momento di discontinuità ed evoluzione etica e estetica per una settima arte percepita tutto sommato stagnante, senza più rivoluzioni, adagiata su rendite di posizione. La ciliegina sulla torta è stato l'Oscar preventivatissimo e la certificazione di importanza trasversale dal sommo snob al sommo pop. Dato a Glazer quel che è di Glazer, togliamo la glassa e proviamo a guardare l'oggetto-film.
«Volevo che gli spettatori si rendessero conto di essere come sommersi». Serve un coraggio d'altri tempi per aprire con uno sfacciato gesto extra-filmico marcatamente teoretico da teatro della crudeltà, che serve a destabilizzare, chiamare in causa, costringere allo straniamento, letteralmente terrorizzare lo spettatore segnalando al contempo l'importanza della visione che sta cominciando. A memoria l'ultimo esempio tanto eclatante era stato compiuto, non a caso, da Michael Haneke (sarà ovviamente un riferimento ricorrente) con il ribaltamento di sguardo tra spettatore e spettacolo che apre Amour. La zona d'interesse comincia gettandoci in una camera di deprivazione sensoriale: alcuni minuti di nero assoluto e partitura atonale firmata Mica Levi. Wittgenstein scriveva che in una giornata si possono vivere tutti i terrori dell'inferno perché di tempo ce n'è più che abbastanza. Glazer e Levi ribattono che serve molto meno tempo. Fosse solo per questo motivo, La zona d'interesse va visto in sala: la prima non-scena è già manifesto e concettualizza le questioni cardinali del "male ambientale" e della localizzazione dell'orrore nel rapporto tra campo e fuori campo (di concentramento). En passant, notiamo anche come il precedente film bello, importante e nuovo attorno all'Olocausto, Evolution di Kornél Mundruczó, venga aperto da un dispositivo uguale e contrario ovvero l'esperienza immersiva, tra videoarte e realtà virtuale, in una delle "docce" di Auschwitz. La ricorrenza ci dice almeno una cosa elementare: è necessario trovare modi nuovi per mostrare la Shoah perché, dopo innumerevoli rappresentazioni, sia ancora visibile.
Nel prologo il sonoro ambientale interagisce in modalità musique concrète con la colonna sonora poi va a sostituirla e serve a localizzare quasi interamente l'orrore nel piano uditivo - è davvero l'inferno: da oltre il muro vengono urla, spari, lamenti, abbaiare di cani, l'apocalisse di Bosch che era il campo di lavoro e sterminio. Il sound designer Johnnie Burn ha trascorso un anno di fieldwork costruendo una libreria sonora completa di tutti i suoni che si ascoltavano ad Auschwitz allora. E, per i titoli di coda che replicano l'esperienza sonora allucinatoria iniziale, registra e distorce i fischi e le grida di un gruppo di cantanti. Il campo visivo invece resta semi-sgombro. Sarebbe interessante fare un esperimento, portare al cinema alcuni spettatori totalmente ignari chiedendo di indicare il momento in cui hanno capito dove si trovavano. Probabilmente accadrebbe dopo circa una dozzina di minuti per via della sagoma familiare delle torrette e dei muri sullo sfondo. Lo sterminio, però, entra in campo solo in forma di resto (resto sonoro oppure, orribilmente, cenere, il materiale di scarto più copioso e celebre dei lager nazisti). La zona d'interesse è ostinatamente altro, dal punto di vista formale, rispetto al filone del cinema dell'Olocausto cominciando dalla luce - i toni grigi o il bianco e nero programmatico usuali lasciano spazio a un film luminosissimo, innaturalmente troppo luminoso come una foto Huawei, abbagliante e disturbante per eccesso opposto - e dallo spazio. Il centro del film, la zona d'interesse, è ovviamente la bella villa che realmente esisteva a lato del campo, abitata dal comandante Rudolf Hoss e famiglia. Il movente iniziale del film è stata proprio l'ossessione personale di Jonathan Glazer per questo oggetto inquietante cui è riservata l'attenzione maggiore. Le scene in interno sono riprese piazzando dieci camere a circuito chiuso dirette da remoto per creare, nelle parole del regista, «una casa del Grande Fratello piena di nazisti», destabilizzando in senso teatrale e comportamentista la recitazione. «Non volevo il dramma, non volevo feticizzare i nazisti, volevo osservare questi personaggi nella vita quotidiana». Il procedimento genera simultaneamente uno spazio filmico panottico paranoide e destrutturato (dicendo anche che il focolare domestico non è normale né innocente) che è mappato in modo schizofrenico tra piani sopraelevati e seminterrati che si espandono come livelli di un videogame. E c'è poi il giardino-Eden continuamente percorso in piano sequenza, esplorato e congelato in quadri rubati ai giardini di delizie di Cranach o agli acquerelli naturalistici di Durer, l'oasi traboccante vita e bellezza speculare alle idilliche gite nella campagna polacca, hortus conclusus recintato dai muri dello sterminio e concimato con la cenere dei cadaveri bruciati.
La domanda più ovvia, ritrita, banale non è meno importante essendo più che mai attuale: come è stato possibile? Cosa dice tutto ciò a proposito della natura umana? Seppure in termini molto differenti, in Sexy Beast come in Under the skin, Glazer ha spesso ragionato sulla capacità tutta umana di essere contemporaneamente individui amorevoli e affettuosi e autori di crudeltà indicibili. Il romanzo di Martin Amis ispirato alla vera storia della famiglia Hoss - la moglie è morta serenamente nel 1981, ultraottantenne, continuando a affermare che non sapeva nulla, non sospettava nulla - funge soltanto da griglia mobile, da materiale grezzo di partenza per elaborare, rispetto alla domanda banale ma necessaria di cui sopra, ipotesi di risposta per nulla banali. La zona d'interesse segna delle discontinuità con il filone Olocausto non soltanto in termini formali. Auschwitz non è la consueta esplosione di malvagità demoniaca bensì pura necropolitica capitalista. Non soltanto viene esplicitato in ogni modo possibile il legame di dipendenza e di organicità strutturale del regime nazista rispetto all'industria e al capitale tedesco - un atto di parresia già effettuato da un marxista come Luchino Visconti ne La caduta degli dei - ma si sottolinea una parentela ideologica che arriva alle radici, al fatto antropologico. A Rudolf Hoss - che vediamo nel film trattare con ingegneri e chimici come fossero rappresentanti commerciali qualsiasi - si deve l'applicazione del fordismo al genocidio, l'introduzione del gas Zyklon B per massificare, ottimizzare e velocizzare le uccisioni. Rudolf Hoss è anche un padre amorevole, un marito infedele ma attento e un uomo noioso oltre che incidentalmente un criminale contro l'umanità: un personaggio che ha qualche tangenza col protagonista de L'avversario di Emmanuel Carrère. Rudolf Hoss è anche e soprattutto l'apicale di plurime «creature non pensanti, borghesi, carrieriste» che prosperano attorno allo sterminio di ebrei, rom, omosessuali. Il film di Glazer esplicita la discendenza diretta dell'Olocausto dall'ideologia e dalla forma di vita capitalista e da quella borghese. Non c'è meno violenza nella moglie Hedwig che "fa shopping" con i beni sottratti ai deportati e (finge di) non vede(re) al di là del proprio giardino. E neppure nella suocera orgogliosa per la buona posizione raggiunta dal genero e dalla figlia mentre è accompagnata in un allucinante giro della proprietà che gela il sangue quanto i forni crematori perché espone l'orrore che può annidarsi nella normale ferocia delle pulsioni e della tensione al nucleo e all'autorealizzazione, nelle estreme conseguenze del familismo amorale dei borghesi. Si è tentati di dire, in modo semi-consolatorio, che si tratta di personaggi senza coscienza. Invece la conclusione radicale del film di Glazer è che si tratta di personaggi senza scrupoli, che "non vedono" ciò che sta fuori il perimetro domestico perché non ne sono toccati, non considerano l'altro degno di considerazione, protezione, lutto ma letteralmente Untermensch. Nazism begins at home. Il saccheggio e l'eliminazione del gruppo umano sottoposto non è mai tematizzato nei dialoghi ma esce come un inciso del discorso e allo stresso modo nessuno si preoccupa della natura della cenere finché fertilizza, genera ricchezza e censo. Il tema arendtiano della banalità del male, della burocratizzazione come lubrificante del genocidio è più volte ribadito ed è condensato in una battuta folgorante, quando Hoss chiude un telegramma con "Heil Hitler eccetera". C'è infine un'insistenza pressoché inedita che chiarisce definitivamente l'aggiornamento e l'approfondimento ideologico apportato da Jonathan Glazer al tema. Gli Hoss si definiscono a più riprese, orgogliosamente, "coloni" e dichiarano l'adesione (sincera o strumentale? non cambia nulla) alla sacra missione messianica proclamata da Adolf Hitler a proposito del Lebensraum, dello spazio vitale a Est, dell'espansione e della germanizzazione dei popoli inferiori. Chi ha orecchie per intendere intenda. Va notato come un film che programmaticamente veicola il senso attraverso l'audiovisivo, un film poco parlato dai dialoghi banali e burocratici, apra il campo con bombe ideologiche sganciate da singole parole chiave dirompenti semi-mimetizzate dentro il discorso.
Ogni testo che affronti la Shoah, lo sterminio nazista del popolo ebraico non può sottrarsi al confronto con una letteratura sconfinata. Non ho trovato riscontri o menzioni e non so se fosse effettivamente nei pensieri del regista-sceneggiatore ma il riferimento più prossimo mi pare Piazza degli eroi di Thomas Bernhard, l'ultimo dramma teatrale e il più scandaloso, quello per cui il genio austriaco venne attaccato da ogni livello della politica e della stampa nazionale oltre che fisicamente aggredito e forse contribuì all'attacco cardiaco che lo uccise poche settimane più tardi. La Piazza degli Eroi di Vienna è una "zona d'interesse", il luogo fisico dove venne dichiarato l'Anschluss: le grida naziste continuano a risuonare cinquant'anni più tardi in una nazione mai veramente denazificata, dove chiesa e borghesia alimentano lo stesso razzismo, lo stesso antisemitismo, la stessa intolleranza, la stessa ottusità ed è proprio il crescendo sonoro da incubo, correlativo di un fuori campo totalitario totalizzante, a spingere al suicidio un professore ebreo le cui finestre si affacciano sulla piazza. L'haunting di un'ideologia che si vorrebbe mostro, eccezione storica e invece è la normalità, la natura sociale si manifesta, come nell'opera di Glazer, attraverso la colonna sonora, nel suono ambientale. Se si parla di Olocausto è impossibile non citare uno dei saggi più importanti, brucianti e radicali del secolo scorso, già cinematografico grazie a Straub/Huillet: I cani del Sinai di Franco Fortini, scritto in occasione della "Guerra dei sei giorni" e indirizzato a «chi ha senza disgusto tollerato di ascoltare o di leggere dette e scritte per gli arabi buona parte delle argomentazioni che trent'anni or sono la stampa hitleriana formulava contro lo Jude». Fortini delinea i motivi dell'unicità ritagliata all'Olocausto nazista e i pericoli della sua assolutizzazione anticipando il senso morale profondo de La zona d'interesse. «Evocare i macelli nazisti equivale a chiederne una chiave, una interpretazione. (...) Quel senso era: di aver riassunto, nella posizione di vittime e in una incredibile concentrazione di tempo e ferocia, tutte le forme di dominio e violenza dell'uomo sull'uomo proprie dell'età moderna; di aver riprodotto ad uso di una sola generazione umana quel che diluito nel tempo, nello spazio, nella abitudine e nella insensibilità, le classi subalterne europee e le popolazioni colonizzate avevano subito come diniego di esistenza e di storia, come alienazione reificazione annichilimento. Ma ricavare questo senso e una lezione di lotta contro le condizioni estreme a noi note che rendono possibile la distruzione dell'uomo, di cui la strage ebraica è solo un esempio, è stato di pochi. Molti portavoce della cosiddetta "cultura" d'Occidente cercavano interpretazioni extra-storiche e metapolitiche e rapidamente giungevano a situare le stragi naziste nell'ordine del "sacro", a considerarle opera del Male In Sé, in sostanza ad accettare, rovesciandone i contenuti, uno dei miti centrali della mistica nazista: la purezza o purificazione attraverso l'olocausto».
Per quanto riguarda le parentele cinematografiche ci limiteremo a tre paralleli significativi. Moloch, uno di tanti capolavori firmati Aleksandr Sokurov, raccontava la normalità, la vita quotidiana, la vacanza di Hitler, Eva Braun e altri altissimi gerarchi nel Nido d'Aquila bavarese del Berghof. Se ci sono legami a proposito della banalità del male, dello straniamento che alimenta l'orrore morale alla vista dell'umanità tragicomica di Hitler mentre blatera bizzarre teorie alimentari o si diletta in passeggiate alpestri in compagnia di Goebbels e famiglia, va segnalata la distanza formale e teoretica (quelli di Sokurov sono sempre pamphlet di etica e filosofia della storia) e il dettaglio per cui Moloch fa parte di una trilogia sul Potere. La zona d'interesse in questo caso è anche geograficamente innalzata molto al di sopra della vita comune e borghese e del mondo reale per poterne esplorarne la follia e il male essenziale mentre la contiguità fisica di casa Hoss con il lager ne palesa il rapporto saprofita, la causa-effetto, l'estrazione marxiana di plusvalore. Schindler's List è il doppio antinomico de La zona d'interesse, l'esatto opposto per l'applicazione al patetico spettacolare del massimo grado di maestria da parte di Steven Spielberg. E anche, più sottilmente, perché per l'americano la fabbrica diretta dal Giusto tra le Nazioni Schindler, nazista redento e buono, capitalista illuminato, è letteralmente luogo di fuga e salvezza dove il lavoro rende liberi. Scegliendo una particolare storia vera Spielberg adombra la contrapposizione ideologica tra il mondo libero del libero mercato e il totalitarismo nazista. Al contrario, secondo Glazer, tra industria e lager non c'è soluzione di continuità. Il nastro bianco è sicuramente uno dei film più belli e importanti del secolo corrente oltre che un film definitivo a proposito del nazionalsocialismo perché non lo nomina mai ma lo tiene costantemente aleggiante sopra e oltre il campo, il discorso. Per questa ragione, oltre che per la categoria facile del "rigore", non si può non pensare a un debito nei confronti del maestro austriaco. Tuttavia Il nastro bianco con tutto il suo rigore è un film profondamente enigmatico, intriso di una keatsiana negative capability che lo rende sommamente perturbante e sconvolgente, radicalmente crudele nei confronti dello spettatore. L'unico limite della bellissima, importantissima opera di Jonathan Glazer è nel teorema svolto con rigore matematico facendo tornare le somme, nel dispositivo inflessibile privo di smagliature. Glazer è lucidissimo, scompone la logica del nazismo e delle sue radici con piglio analitico britannico. Al punto che si ha spesso l'impressione di un oggetto vicino alla videoarte quanto al cinema.
Ci sono tre scene fuori serie che sembrano eccedere al teorema e sulle quali è il caso di soffermarsi. Le prime sono le sequenze strane, confuse e di difficile comprensione immediata girate con camera termica. Sembrano estratte da un videogame e il loro caotico spettrale evoca in modo associativo gli ambienti dei fratelli Grimm, della fiaba germanica, il repertorio folklorico che contribuì a plasmare il mito nazi. Si viene poi a sapere che l'immagine da Pollicino o Hansel e Gretel delle mele lasciate a modo di percorso introduce la storia vera di una bambina della resistenza polacca che passava di nascosto il cibo ai prigionieri del lager. Si chiamava Alexandria, Glazer l'ha incontrata e il film le è dedicato. La rottura della forma segnala l'unico atto veramente umano, empatico dell'intero film. Al contrario l'immagine finale di Hoss che vomita in mezzo a un cannocchiale kubrickiano di scale e corridoi in un palazzo in stile nazionalsocialista resta non casualmente iperformalizzata perché - spiega il regista - nonostante ciò che potremmo inferire si tratta di una mera reazione fisica che non implica rigetto cosciente del proprio ruolo e delle proprie mansioni. Hoss resta fino all'ultimo ciò che è: un borghese piccolo piccolo capace di compiere insensibilmente atrocità colossali. C'è infine un'ultima scena fuori serie e fuori tempo - al tempo presente - inserita ex abrupto nel sottofinale: le riprese quasi Jeff Wall del campo di concentramento fatto museo con i reperti spolverati da inservienti. Difficile non leggere un riferimento ai rischi di una memoria museificata, alla assolutizzazione della Memoria riferita al solo vero genocidio al cui proposito ammoniva Franco Fortini già nel 1967. Il proliferare di lager e pulizie etniche letteralmente a fianco casa dalla Libia alla Palestina occupata, al cui rispetto l'Occidente non è per nulla innocente, le necropolitiche che osserviamo svolgersi in tempo reale senza muovere un dito danno ragione al regista: «Non ero interessato a fare un pezzo da museo. Non volevo che la gente avesse una distanza di sicurezza dal passato e se ne andasse senza restare turbata da ciò che aveva appena visto. Volevo dire che dovremmo sentirci profondamente insicuri per questa sorta di orrore primordiale che ci riguarda tutti. (...) Ero determinato a non fare un film sul passato ma sull’oggi perché questo non è un documento. Non è una lezione di storia. È un avvertimento». Jonathan Glazer è stato ancora più chiaro e esplicito accettando l'Oscar al miglior film straniero quando, accolto da una parte di applausi e una parte di gelo, ha fatto irrompere la realtà dentro la liturgia allucinatoria auto-assolutoria che è la premiazione degli Academy Awards ricordando che il suo film mostra «dove porta la disumanizzazione» e riferendosi inequivocabilmente a «ebraicità e Olocausto dirottate da un'occupazione». La zona d'interesse rinnova un genere a rischio esaurimento e parla del passato per parlare al presente. E parlando al presente fornisce strumenti utili a riconoscere il genocidio dei palestinesi per mano israeliana. Veramente è un film importante.
Alessandro Ronchi
(16 Marzo 2024)
Voto: 8.5
Post scriptum -
Ho visto La zona d'interesse due volte, entrambe in sala, su grande schermo. La prima visione è stata come si deve: in versione originale sottotitolata. Poi l'ho rivisto in versione italiana. Quello che inevitabilmente andava perduto nella recitazione massacrata dal doppiaggio era riscattato da una fruizione diversa che ha illuminato caratteristiche peculiari del lavoro di Jonathan Glazer e un surplus di valore. Guardare La zona d'interesse senza seguire sottotitoli significa non staccare gli occhi e l'espressione - dato il soggetto - ha un chiaro doppio significato letterale e metaforico, deontologico. Non staccare gli occhi, fissare lo sguardo al fondo dell'abisso, non invertire campo e fuori campo. E inoltre impaludarsi, non sottrarsi un istante al meccanismo a orologeria orchestrato dal regista come teatro della crudeltà, come macchina che in modo graduale, crescente, spesso subliminale e omeopatico destabilizza e sconvolge e chiama in causa lo spettatore. Senza staccare gli occhi sono uscito dal cinema con molto più disagio, molta più claustrofobia, molta più nausea. La rivolta morale molto spesso scaturisce dalla ripulsa fisica. L'esperienza di visione continuativa appare una modalità preferita e amplifica ulteriormente la potenza di un film che utilizza magistralmente il linguaggio, la tecnica e l'estetica per veicolare un'operazione squisitamente etica. La zona d'interesse, alla seconda diversa visione, ne esce altrettanto importante e più grande, più terribile.