Commedia, Drammatico, Recensione

JOJO RABBIT

NazioneU.S.A., Nuova Zelanda, Repubblica Ceca
Anno Produzione2019
Durata108’
Sceneggiatura
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Nella Germania del 1945, Johannes Betzler detto “Jojo” ha dieci anni ed è un fanatico nazista, al punto di avere come amico immaginario e consigliere Adolf Hitler. Con il padre apparentemente disperso al fronte, vive solo con la madre, attiva nella resistenza. Le sue convinzioni, infatti, gradualmente muteranno, attraverso il classico “coming of age”, quando scopre che la madre nasconde in casa Elsa, una ragazza ebrea.

RECENSIONI

Nel giudicare un film come Jojo Rabbit di Taika Waititi c'è il pericolo di un duplice fraintendimento di fondo. C'è, da un lato, il rischio di lasciare troppa voce alle proprie aspettative e a quello che avremmo voluto vedere e che, almeno in parte, ci è stato suggerito, non intercettando così quello che il film vuole davvero essere e il tipo di pubblico a cui è principalmente rivolto. La conseguenza può essere quindi quella di alzare troppo le sopracciglia. Il secondo rischio è opposto; capire troppo le finalità e "l'audience" del film e, di conseguenza, sorvolare per l'eccessivo entusiasmo su tutto quello che stona e non funziona, a partire, per esempio, dal fatto che Waititi ha abbastanza evidentemente tirato il sasso nello stagno e poi nascosto la mano. Il sasso in questione è quello della commedia - paradossale, nera, ridicola, feroce che sia - che, con cattiveria o con paradosso, mettesse alla berlina le storture della storia e dei fanatismi, lavorando sulle capacità, anche all'apparenza sgradevoli, di scavo e di ribaltamento provocatorio che favorisce il senso critico del comico. Un'operazione che, per intenderci con esempi riconoscibili e rimanendo nel campo del nazismo, avrebbe fatto entrare Jojo Rabbit nella variegata famiglia composta da film come Per favore, non toccate le vecchiette di Mel Brooks ( e relativo remake ) o, in chiave diversa, altrettanto feroce ma decisamente più disillusa e amara, Train de vie di Radu Mihãileanu, o ancora la beffarda vittoria del cinema sulla storia raccontata da Quentin Tarantino in Bastardi senza gloria. Insomma, per dirla banalmente, le aspettative che forse sono state alla base di commenti e giudizi eccessivamente severi erano quelle di una commedia più rivolta agli adulti che ai bambini, che in qualche modo desse per scontata la consapevolezza dell'orrore raccontato e che, sulla base di questa consapevolezza, facesse agire il potere del comico di mettere alla berlina, senza necessità, per così dire, esplicitamente "educative" ed "edificanti".

Jojo Rabbit invece, sempre più chiaramente man mano che scorre, si mostra come un coming of age dal retrogusto di gentile racconto morale rivolto ai ragazzi. Il pubblico di riferimento è quindi quello dei coetanei del giovane fanatico e imbranato protagonista, personaggio che nella sua imitazione, voluta tanto quanto imposta dal contesto politico e famigliare, di comportamenti e pensieri dei grandi – a partire proprio dalla fede cieca verso il nazismo - ricorda quei "bambini adulti" che popolano il cinema di Wes Anderson, il riferimento forse da cui Watiti maggiormente pesca; è più o meno vagamente wesandersoniana l'atmosfera artificiosa e lievemente irreale di fondo, la centralità dell'attività artistica come via di fuga - Il ballo, citato prima dalla madre interpretata da Scarlett Johansson e poi esploso nel finale - e la composizione geometrica e "colorata" di sequenze quali il primo raduno della gioventù hitleriana, dove riecheggia il campo kaki scout di Moonrise Kingdom. In questo racconto esemplare e morale, la comicità, depotenziata e innocua – tolti qualche momento e qualche battuta in cui le unghie diventano affilate -, è in qualche modo asservita alle finalità edificanti. In parte è uno strumento che rende il crescente spaesamento interiore di Jojo e l'altrettanto crescente difficoltà di trovare nella realtà la giustezza e l'efficacia delle sue convinzioni, ma soprattutto pare essere il mezzo con cui il film evita i didascalismi, gli eccessi zuccherini, la lacrima quasi imposta e quel certo accentuato patetismo di fondo di operazioni simili che guardano e raccontano la Shoah con gli occhi all'altezza ragazzo ( da, per dire, Un sacchetto di biglie di Christian Duguay a Il bambino dal pigiama a righe di Mark Herman ). In qualche modo, anche il comico quindi contribuisce alle finalità educative, di solleticamento e risveglio della memoria e della conoscenza storica, di un film che, da questo punto di vista, fa assolutamente il suo mestiere, anche evitando eccessi retorici e didascalici. Con l'eccezione di almeno un momento, l'unica vera caduta di stile e tono, che avrebbe fatto probabilmente tirare fuori la penna rossa a André Bazin; la sequenza, cioè, in cui Jojo scopre la morte per impiccaggione della madre, composta da tre inquadrature da tre angolazioni leggermente diverse del volto del ragazzo. Una lunghezza eccessiva e una costruzione del decoupage dell'inquadratura che insistono e ribadiscono in maniera quasi ricattatoria un dolore che, va da sé, sarebbe stato evidente e centrale anche senza questo nuovo carrello di Kapò.

Questo è l'unico momento in cui il film di Wakiti sbanda davvero, tenendo per il resto, pur con qualche affanno qua e là, la barra di una certa asciuttezza e di una complessiva pulizia, riuscendo ad essere un efficace e buon esempio di cinema educativo, anche grazie, ribadiamolo, all'utilizzo strumentale della comicità depotenziata. Semmai i difetti del film sono altri, poco colti questa volta da chi è caduto nella seconda trappola di cui parlavamo all'inizio, quella dell'eccessivo entusiasmo. Non solo perchè ( Ribadiamolo ) non bastano l'importanza e la genuinità del tema e quello che può essere un valore educativo e divulgativo per far sia che un film sia un grande film, ma anche perchè Jojo Rabbit non è così originale, né, soprattutto, particolarmente compatto e centrato. Se è vero infatti che la comicità è strumento in fin dei conti pure efficace delle finalità quasi didattiche, altrettanto vero è che Watiti, come dicevamo, ha lanciato il sasso e nascosto la mano, lasciando, in particolare nella prima parte, pensare ad un film più coraggioso anche nell'attivare il senso critico del riso e del sorriso e nell'affondare le unghie nella storia, salvo poi, forse anche un po' per timidezza, ritrarsi. I due toni, quello più divertito e divertente e quello più drammatico ed emotivo, non sempre sono ben amalgamati, e solo nella parte finale il giusto mix sembra essere raggiunto, restituendo definitivamente quell'atmosfera quasi paradossale, accennata all'inizio e poi suggerita sempre più sporadicamente, che avrebbe potuto essere la chiave giusta per ritrarre con maggiore forza lo spaesamento interiore del giovane protagonista e la scoperta che le lenti dell'ideologia nazista danno uno sguardo sfocato. Tra i momenti più centrati in questo senso, e anche tra i meno timidi del film, c'è la visione della disperata battaglia conclusiva – la capitolazione -, all'insegna proprio di quel senso del ridicolo anche "cattivo" e di quel paradosso nato dal fatto che il ragazzino definitivamente prende consapevolezza della realtà delle cose e del nazismo. C'è poi la danza finale, al ritmo della versione tedesca di Heroes di David Bowie; il momento più tenero, dolce, liberatorio, divertito ed emotivamente d'impatto e in cui emerge una sensazione di disincantata speranza. È forse una chiusa che, da sola, può valere il film, che, sì, come si dice, può essere tranquillamente visto nelle scuole, e funzionerebbe; senza però entusiasmi, così come tenendo a bada le arcate delle sopracciglia.