TRAMA
Arnold Albertson (Owen Wilson), regista teatrale e televisivo di successo, arriva nella Grande Mela per mettere in scena la sua ultima produzione di Broadway. Il ruolo della protagonista – una prostituta redenta – è ancora da assegnare, ma nel cast ci sono già sua moglie (Kathryn Hahn) e il divo del cinema Seth Gilbert (Rhys Ifans). La prima sera che Arnold si trova a New York, chiede la compagnia di una escort a un servizio apposito, che gli manda una giovane e affascinante ragazza: Isabella (Imogen Poots). Nel corso della serata Arnold le regala 20mila dollari, in cambio Isabella dovrà lasciare il suo lavoro e intraprendere la carriera dei suoi sogni, quella di attrice. Ma Isabella si presenterà proprio al provino per lo spettacolo di Arnold, con risultati imprevedibili.
RECENSIONI
La conseguenza che devo trarne
è che il tempo ritornerà sui suoi passi,
che la catena dei minuti si srotolerà in senso inverso,
fino a quando non si arriverà di nuovo al principio,
per poi ricominciare,
tutto questo infinite volte,
e non è detto, allora, che abbia avuto un inizio.
Italo Calvino, Tì con Zero.
Fin dall'uscita del trailer, She's Funny That Way sembrava avere le forme di una banale commedia degli equivoci appesantita dalle atmosfere newyorkesi à la Woody Allen da un lato e dallo stile elegante e raffinato di andersoniana memoria dall'altro. Fortunatamente ci sbagliavamo. Diretto in seguito a una lunga pausa dopo The Cat's Meow del 2001, Peter Bogdanovich ritorna al cinema girando un film che ancora una volta vuole rimandarci a una solidissima identità autoriale. Scritto a quattro mani con Louise Stratten e pensato originariamente per John Ritter (il protagonista di All They Laughed), con She's Funny That Way Bogdanovich recupera le cifre della screwball comedy e, trasportandole in chiave contemporanea, riscopre i caratteri fondativi di un genere.
Proprio come What's up Doc., anche She's Funny That Way sembra cominciare in un modo apparentemente lineare: Isabella (Imogen Poots) racconta alla tv com'è riuscita a diventare famosa. Tuttavia, seguendo le regole della più classica commedia americana, l'intreccio è destinato a complicarsi. Fughe, travestimenti, scambi di persona: non è proprio negli interessi dell'autore mettere in scena una commedia sofisticata, bensì è la fisicità dei corpi a diventare il motore dell'intera narrazione comica. Non si fa mistero alcuno della passione di Bogdanovich per i cartoons di Chuck Jones e Tex Avery in cui l'inseguimento è la soluzione a cui si ricorre più spesso nella costruzione della trama (mi riferisco a Wile E. Coyote e Road Runner oppure alle gags di Bugs Bunny con il cacciatore Elmer Fudd) e che sembra ritornare centrale anche nelle camere d'albergo newyorkesi in cui viene a svolgersi tutta l'azione. Ciononostante va distinto un lavoro di tipo macroscopico impostato sulla citazione diretta e sull'omaggio da una più sottile indagine e riproposizione strutturale e linguistica dei meccanismi di genere: proprio come nelle commedie di Hawks e Lubitsch, Bogdanovich predilige un montaggio per traiettorie continue dando vita a una farsa alla Feydeau, con molto movimento dentro e fuori dalle stanze e porte rumorosamente sbattute. Tuttavia, è su Lubitsch che l'attenzione si concentra maggiormente: è proprio il regista durante la conferenza stampa a evocare Cluny Brown (Fra le Tue Braccia, 1946) per la battuta «Squirrels to the nuts», un gioco di parole che sembra avergli dato l'idea iniziale per scrivere la sceneggiatura di She's Funny That Way. Del film di Lubitsch non condivide solamente l'ironia feroce ma ne fa propri i tratti distintivi, le cifre programmatiche e, soprattutto, quell'allusiva e tacita complicità con lo spettatore in grado di disfare i garbugli solo poco alla volta, mano a mano che il burattinaio decide di svelare i suoi trucchi segreti; così, le entrate e le uscite dei personaggi ubbidiscono a una raccolta di rime che non tollera incertezze e rallentamenti come nel proverbiale Artists and Models (1955) di Frank Tashlin in cui un Jerry Lewis sonnambulo, sveglia tutti i vicini di casa perché ha finalmente incontrato la sua sexy Donna Vampiro.
C'è in tutto il suo cinema una referenzialità che è solamente la superficie di un processo ben più profondo, uno studio del linguaggio cinematografico presente in tutta la sua filmografia: per questo Bogdanovich sembra non inventare nulla che non sia già stato inventato eppure insiste costantemente nel mettere in scena la rivelazione dello spettacolo (si pensi a Nickelodeon), un cinema che mette in scena il cinema, una totalità chiusa in se stessa che si nega ogni altra significazione. Del resto, il cinema e il suo linguaggio è l'unica realtà possibile all'interno del film. È la realtà che per manifestarsi, deve piegarsi alle necessità del cinema: essa può esistere solamente come discorso da riprodurre nella sua specificità. «Tutti i film possibili sono già stati fatti» aveva detto Bogdanovich; e allora mi ritorna in mente un suo vecchio film che si chiama Texasville, il sequel mancato di The Last Picture Show, in cui Sonny (il protagonista di The Last Picture Show, interpretato in entrambi i film da Timothy Bottoms) è rimasto l'unico a ricordarsi del cinema di Sam the Lion dove lui e Duane (Jeff Bridges) avevano visto The Father of the Bride e Red River. Si è trasformato in uno spettatore solitario di uno spettacolo privato: che cosa starà guardando seduto sugli spalti dell'arena? Bogdanovich non lo lascia intendere allo spettatore, mostra gli occhi del protagonista mentre si sentono degli spari in sottofondo e il nitrire di un cavallo. Sarà Rio Bravo? Stagecoach? My Darling Clementine?
Proprio come Sonny, Bogdanovich ci riconsegna le immagini di un mondo ormai perduto e lo rende memoria pregnante, eterno ricordo, pura magia nel cielo. Speriamo proprio che She's Funny That Way non sia l'ultimo spettacolo.
Assente dal cinema dal 2001 (Hollywood Confidential), Peter Bogdanovich torna alla ribalta con una commedia ideata mentre girava Saint Jack nel 1979, quando ingaggiò vere prostitute e cercò di far cambiare loro vita con un salario maggiorato. La sceneggiatura la elaborò con la compagna Louise Stratten nel 1998, avendo in mente John Ritter, Tatum O’Neal (che fa una comparsata) e Cybill Shepherd (qui interpreta la madre della protagonista). Il film non andò in porto per la morte di John Ritter ed è stato riesumato grazie a Jennifer Aniston (il suo personaggio di psicologia spicciola e scontrosa è il migliore) ed Owen Wilson, che lo fa suo con varie improvvisazioni e, a detta di Bogdanovich, traghettando l’opera dalla comicità alla commedia sentimentale. Bogdanovich è talmente innamorato del cinema classico da averlo più volte proposto, in forme rinnovate: in questo caso, a parte le battute prese a prestito da Fra le Tue Braccia di Lubitsch (mostrato alla fine), è palese la messa in scena della commedia degli equivoci in slapstick e sofisticata. Più volte, i personaggi si ritrovano nella stessa scena creando incroci vari e, a parte questa organizzazione spaziale, tematicamente sono legati uno all’altro. Mediamente divertente: se l’intento era riproporre lo spirito di Colazione da Tiffany, il film non possiede quella “magia” che il personaggio di Imogen Poots richiama più volte nell’intervista, perché viene messo a nudo, “teatralmente”, il meccanismo degli incroci (non per niente, Bogdanovich è l’autore di Rumori Fuori Scena) e si perde il principio di immedesimazione. Ad esempio, è un’occasione mancata la sceneggiatura nella sceneggiatura, la commedia di Broadway che racconta la sacralità del mestiere più antico del mondo: in scena c’è l’evidenza del dispositivo degli scontri/incontri ma manca lo spessore di una riflessione emotivamente coinvolgente. Tutto voluto, da parte di un regista che ha sempre prediletto decostruire i film che ama, operare simpatiche operazioni di nostalgia, demodé, con gran sfoggio di prove attoriali e che dell’originalità se ne infischia (dichiarandolo alla fine: “Cosa è originale?”), proprio in presenza di Quentin Tarantino che del riciclaggio creativo ha fatto uno stilema.