Drammatico, Netflix, Recensione

WONDER

Titolo OriginaleWonder
NazioneU.S.A., Hong Kong
Anno Produzione2017
Durata113'
Trattodall'omonimo romanzo di R.J. Palacio
Fotografia
Montaggio

TRAMA

Auggie Pullman ha dieci anni, gioca alla playstation e adora Halloween. Perché è l’unico giorno dell’anno in cui si sente normale. Affetto dalla nascita da una grave anomalia cranio-facciale, Auggie ha subito ventisette interventi e nasconde il suo segreto sotto un casco da cosmonauta.

RECENSIONI

Il piccolo Auggie, affetto da deformità, è un alieno in un mondo che lo guarda: il casco gli nasconde il volto, ma sancisce anche il suo appartenere a un’altra galassia, il suo essere un esploratore di un pianeta che non abita a pieno titolo. Il suo battesimo del fuoco è la regolare frequentazione della scuola media, in cui dovrà imparare a vivere in mezzo agli altri, fuori dalla rassicurante cerchia familiare: la missione spaziale decisiva (3 2 1 Liftoff). Wonder non è soltanto una parabola sull’irrilevanza dell’aspetto fisico rispetto alla bellezza interiore («I am beautiful/ No matter what they say» cantava Christina Aguilera in quell’inno all’autoaccettazione che è Beautiful, non a caso citato nel romanzo), non è solo un ribattere le strade di Mask di Peter Bogdanovich (un capolavoro, tra l’altro), ma un’opera che allarga lo sguardo, ricomprendendo le ragioni e il punto di vista di chi interagisce con il protagonista. L’abbiamo visto in 13 Reasons Why, di recente: il concetto passa scegliendo di non limitarsi a una versione univoca della storia - perché questo significa inquadrare unilateralmente la questione -, ma estendendone lo spettro. Così Wonder non racconta solo di un bambino deforme, ma anche, per esempio, di una sorella che ha subito la disattenzione familiare a causa di quella deformità. O di coloro che in quella deformità si sono imbattuti. Restituire quel maledetto secondo al quale nessuno può sottrarsi (di sorpresa, orrore, ripulsa) e farlo dal punto di vista di chi lancia il relativo sguardo, e non solo di chi lo subisce, è una piccola rivoluzione realista, l’antitesi della fiaba idealista in cui ci sono solo i buoni e i cattivi: è la vittoria dei sacrosanti grigi nel manicheismo tutto bianco o tutto nero delle narrazioni generazionali. Wonder, allora, evidenzia una cosa ovvia, in un modo che i codici del cinema didattico sembrano vietare: che i mantra sulla presunta normalità, che dovrebbero convincere il protagonista ad affrontare a viso aperto gli altri, funzionano solo nei contesti protetti; una volta fuori di essi, ci si imbatte in una giungla che è molto facile demonizzare e di cui sarebbe bene, invece, sondare le leggi e comprendere le ragioni. Solo così, alla fine, a prevalere non sarà solo la perfetta (e vuota) morale di una favola che rimane a distanze siderali dal quotidiano, ma anche la possibilità di una prospettiva autentica dalla quale guardare la realtà.

Così Wonder fa del suo relativismo la struttura stessa del film: Stephen Chbosky, dopo Noi siamo infinito (tratto dal suo romanzo), ritrova la strada di un best seller in cui il mondo giovanile viene inquadrato nelle sue dinamiche interne e nel rapporto con gli adulti, e prova a riprodurne l’impostazione polifonica: così a ogni passaggio del racconto il nastro si riavvolge e la situazione che abbiamo constatato è riportata al punto di vista di qualcun altro che, come Auggie, ha una sua storia, un suo percorso che ne spiega il comportamento.
«Non sei l’unico ad avere avuto una brutta giornata», «Non tutto quello che accade ruota attorno a te» sono allora battute cruciali, perché spostano l’asse narrativo, rendono conto di un altro tormento interiore, di altre problematicità in itinere, di una realtà complessa e sfumata. Del fatto che, accanto al protagonista, ogni altro personaggio (come dice la famosa frase di Ian MacLaren che citerebbe Platone) sta combattendo la sua battaglia. Proprio per questo motivo le due star (Julia Roberts e Owen Wilson, meravigliosi) sono secondari nella vicenda, riconoscibili eppure indistinti nella geografia ampliata di un film che agisce su tappe narrative canoniche, su contesti idilliaci e romanzeschi - innanzi tutto quello familiare, con i genitori che chiunque vorrebbe avere -, che rispetta tutti i canoni dell’opera commovente (impossibile non piangere), ma che su questo terreno riconoscibile pianta la naturalezza della riflessione, grazie a toni indovinatissimi, e l’intelligenza dello sguardo (la scelta dei dettagli).
Che l’impostazione scelta nel rendere l’apologo costituisca il consapevole fondamento della narrazione, lo conferma quel dar conto (il film, come il romanzo) di una rappresentazione di Piccola città di Thornton Wilder: lo spettacolo che ridà visibilità alla sorella di Auggie è tratto da una pièce dalla struttura innovativa che distrugge l’illusione spettatoriale, mettendo a nudo la finzione, e, attraverso la rivoluzionaria figura di un narratore epico, guarda ai caratteri in scena come ai personaggi che sono, creature di una rappresentazione che si muovono tra evidenziati livelli temporali.