TRAMA
Un romanziere americano che vive per un periodo a Londra conversa con sua moglie, la sua amante e altri personaggi femminili che potrebbe aver immaginato.
RECENSIONI
La verità, vi prego, sull'amore - e sul cinema, la letteratura, la vita, tutto. Oppure no. Non direttamente, almeno. L'ultimo film di Arnaud Desplechin è un film dialogico al punto in cui le voci si confondono e l'attribuzione si fa incerta, un film in cui la questione dell'autore è almeno problematica. Queste affermazioni si applicano indifferentemente all'argomento, alla trama, al racconto quanto alla lavorazione, al profilmico, alla scrittura. Tromperie - Inganno (anche il titolo può riferirsi indifferentemente all'una o all'altra area) è l'ennesimo film fantasmatico del regista francese dove l'ingombrante ma assolutamente desiderato ospite spettrale è lo scrittore americano Philip Roth, autore del romanzo omonimo. Desplechin si è a lungo interrogato sul romanzo per decriptarlo affinché l'adattamento risultasse il più fedele possibile all'originale. Ma dobbiamo fidarci, se il tema del romanzo (del film) è proprio l'elogio dell'infedeltà come unica fenditura da cui possa passare tanto la letteratura quanto la vita? Se il senso è che le cose si fanno reali solo quando le racconti?
Se provassimo a fare l'esercizio di discriminazione e cercare, nel film, cosa è Roth e cosa è Desplechin ci arrenderemmo presto all'evidenza della convergenza. La centralità ossessiva del tema ebraico e dei suoi corollari è di Roth ma anche le opere precedenti di Desplechin erano punteggiate da ebrei (a partire da I miei giorni più belli su cui torneremo perché è il film-sponda). Lo humor nevrotico giudaico-newyorkese viene sicuramente dalla fonte e innerva alcune delle scene in cui la matrice letteraria è più dichiarata e dominante, come quella del dialogo col padre del protagonista o le discussioni ossessive sulla morte girando per parchi - che, giustamente, Desplechin gira come Woody Allen. Comune è il rapporto ossessivo con il consultivo biografico che è tipico di chi è ossessionato dall'invecchiamento e dalla morte (tema cardinale di tutto Roth fino a Everyman). C'è un'altra convergenza geografica-intellettuale ed è quella verso l'oltrecortina, l'Est Europa sovietico. Ne I miei giorni più belli era un'avventura comico-spionistica a Minsk, qui una parte della storia si svolge a Praga con accenti similari. L'attrazione di entrambi per i luoghi carichi di storia novecentesca (e tragicamente ebraica) è anch'essa una fascinazione spettrale, sebaldiana per "l'immancabilmente evaso o morto". Roth sicuramente - e forse anche Desplechin - è un uomo novecentesco che vuole raccontare storie novecentesche.
Dice il regista: "Avevo letto il libro e lo avevo distribuito alle mie collaboratrici donne perché non riuscivo a capire se fosse misogino o femminista". La filmografia di Desplechin è piena di "gialli" metafisici che non si risolvono canonicamente, nel chiaroscuro fervido che è la zona grigia tra verità e menzogna. Desplechin, l'affabulatore, abbraccia l'inganno e la verità obliqua, di differente livello, che scaturisce dal tradimento dei fatti puri. Prende un romanzo ambiguo che espone il suo nudo autobiografismo tramite discorso diretto al fine di metterne in crisi lo statuto ontologico e ne sottolinea il piano culturale, l'indagine delle relazioni con la storia, la geografia, la letteratura (a un certo punto gli amanti si chiedono esplicitamente "la nostra è una storia culturale?"). Sceglie una messinscena teatrale (in particolare la scena con la neve che non cerca di essere credibile, la retro-proiezione di immagini, il gioco scenografico degli interni, delle case, che muovono senza soluzione di continuità dal simbolico mentale al naturalista), si ispira a Vanya sulla 42esima strada, dichiara la comunanza con il cinema fantasmagorico di Federico Fellini per cui tradire la realtà (il realismo) in favore dell'artificio era l'unica via per giungere alla sua essenza e quindi alla sua verità. Fellini, tanto nel cinema quanto nell'esistenza, è un riferimento obbligato a proposito dell'elaborazione di una fedeltà lontana dal senso comune che, per il senso comune, sarebbe menzogna e inganno eppure genera esiti magnifici.
Per una associazione quasi di rigore, l'ossessione mortuaria chiama l'ossessione erotica. Rimanendo in territori felliniani, Tromperie - Inganno è la "città delle donne" di Roth/Desplechin. In senso letterale con il processo / metoo rappresentato nella forma ormai canonizzata dal cinema recente, da Annette in giù. In senso più vasto, le similitudini con l'opera felliniana si diramano dal catalogo erotico alla cronaca di mezza età, al senso di declino, di impotenza e scostamento dal mondo che si accompagna all'esordio senile. Se il caleidoscopio di personaggi femminili serve anche a distribuire i ruoli di una autobiografia destrutturata e scomposta, alla sempre splendida Emmanuelle Devos (attrice-feticcio) è assegnata l'area più critica e scottante, quella della malattia, il fantasma della morte. La vita è un processo di disgregazione: lo tematizza, in anticipo sui tempi anagrafici, la studentessa americana quando, parlando di Kafka (un altro ritratto appeso letteralmente e simbolicamente sul film), chiosa annotando che a 36 anni un romanziere smette di tradurre l'esperienza in finzione e impone la finzione sull'esperienza. C'è bisogno di pensiero magico per mantenere lo slancio vitalistico - anche questo è un ennesimo punto di accordo tra le poetiche (e le posture esistenziali) del romanziere americano e del regista francese, i cui film sono sempre avvolti da un'atmosfera di magia positivista, agrodolce, invernale. E l'atto magico per eccellenza è la scrittura, l'autofiction - e ancora prima, la parola: l'intervista simulata tra Léa Seydoux e Denis Podalydès, con il suo durare coattivo gira ossessivamente attorno ai temi della vecchiaia, della morte e del ricordo e sulla prefigurazione di un futuro che terrorizza e perciò va immaginato per disinnescarlo, ridurlo a racconto.
È proprio sul tema dell'autofiction una delle scene più toccanti e, giustamente, irrisolte del film. Il confronto con la moglie che chiede vengano almeno cambiati i nomi nel romanzo avanzando i propri diritti di personaggio/persona pone un tema caldo del dibattito culturale corrente - viene in mente in particolare il caso Carrère riguardo l'ultimo romanzo, Yoga. "Non mi farò censurare da nessuno". "Smettila di fare l'ipocrita". Si scontrano la libertà dell'artista che rivendica uno statuto privilegiato nel mondo e il diritto dell'arte ad essere assoluta e illimitata per non diventare borghese e innocua e l'altro diritto, quello della realtà, a non essere cannibalizzata. È un altro lato della questione fiction-realtà che innerva tematicamente il film: di chi è ciò che si scrive? Resta, in conclusione, un salutare elogio dell'infedeltà, innanzitutto verso il genere e la struttura. Le rapsodie in altri generi, mai sviluppati, come la spy story o il film comico, dicono del piacere di prendere tangenti, del godimento (jouissance) del racconto che, per Roland Barthes, stava nella disidentificazione e nella perdita di consistenza. Anche la struttura a brevi episodi che a volte si fanno sketch, organizzati secondo un ritmo disomogeneo, ricorda la "l'andare veloce" che il semiologo associava a Jules Verne e alla lettura per puro godimento. La scrittura autobiografica è invenzione almeno quanto è memoria e ordine. E l'esito felice, come una terapia psicanalitica riuscita, che occorre all'amante inglese quando si confronta col suo personaggio letterario ci ricorda come "scrivere altera le cose" e come spesso sia necessario tradire gli obblighi formali verso il mondo per potergli essere veramente fedele, ossia amarlo.