TRAMA
Sul punto di tornare in Francia, Paul Dédalus si abbandona ai ricordi: l’infanzia, la follia di sua madre, le feste, la sua prima volta, la missione segreta in URSS, l’amico che lo ha tradito e l’amore della sua vita…
RECENSIONI
Je me souviens. Tre ricordi di gioventù, sciorinati in principio da una camera da letto in Tagikistan, all'amante d'occasione, prima del ritorno. Poi ricordi che rincorrono se stessi, come se non ci fosse un presente, un qui e ora preciso, a richiamarli. Je me souviens: 1) Un frammento gotico, cortissimo. Un flash d'orrore infantile sottratto all'oblio, un momento scuro e conciso, come tutte le cose traumatiche: Paul bimbo che si scontra con la madre folle, poi suicida. 2) Un coming of age spionistico, una pagina di lessico famigliare piegata a una trama da Guerra Fredda: Paul adolescente che regala il proprio passaporto a un coetaneo russo, perché questi possa raggiungere Israele. Paul che si sdoppia, dunque, che si perde e non si conosce, Paul che libera un possibile sé. 3) L'amore, in ultimo. Il primo, l'unico. Esther. Che si prende 3/4 di film, di ricordi, di fondamenta su cui è costruita l'identità di Paul Dedalus e che si chiama come Esther Kahn. Spettri e specchi, confini sfumati, ego slabbrati. «Chi è lei?» «Non lo so più», risponde Paul a chi lo interroga, in aereoporto, quando scopre che l'uomo a cui aveva prestato il nome è morto. «Non sono abituato a leggere il mio certificato di decesso». «Sei tu, non il tuo doppio», gli dice, gli disse, gli dirà ogni giorno Esther dopo averlo baciato, prima che il film si chiuda sullo still frame eterno del viso di lei, di quelle labbra, di quel sorriso. Di quello che per Paul è tutto e per il film anche, ovviamente. «In te, ai tuoi piedi, io ripongo la mia fede». L'unica, di un uomo, laico, antropologo, che non conosce preghiere. Si ritrova nel passato, il Paul Dedalus di Mathieu Amalric. È l'Antoine Doinel di Desplechin, un personaggio che avevamo già incontrato 19 anni fa in Comment je me suis disputé... (ma vie sexuelle), in Racconto di Natale, in Jimmy P.. (in un corpo differente, quello dell'etnopsichiatra Georges Devereux), probabilmente in tutti i film del regista. Un uno che sfugge, sempre uguale e sempre diverso. È, come sempre è Desplechin, un film modernista e umanista, Trois souvenirs de ma jeunesse. Purissimo cubismo esistenziale: un film in cui al centro c'è un uomo, ma un uomo scentrato, frammentato, smembrato come i corpi eccedenti, le reliquie presenti e insistenti di La sentinelle, gli odii e gli amori di ogni film successivo. Un uomo la cui identità è scomposta, basculante e smodata, definita continuamente nel rapporto con l'intorno sociale. Un individuo che esiste come riflesso contraddittorio del collettivo, dei legami familiari, delle fughe in personaggi secondari, delle digressioni in storie d'altri, della compassione, cum patior, verso terzi. Della storia maiuscola («così termina la mia infanzia» dice Paul guardando in tv la caduta del muro di Berlino). Un uomo fatto di memorie dettate dai sentimenti, di risentimenti dettati dai ricordi. Di urti, risposte, riflessi. Di andate e ritorni (anche a letto: «gli uomini vengono, le donne partono»). Di piccoli miti autobiografici, con cui ridefinire il passato. Di utopie (politiche, morali, sentimentali) con cui costruire il proprio presente, e il proprio futuro. Di donne che sono patria, di fratelli che sono l'unico sostegno. Il cinema, di tutto questo, per Desplechin, è la scrittura ideale. La lingua del mondo interiore. Il metraggio d'ogni episodio è una questione di rilevanza sentimentale, gli strumenti del montaggio, gli iridi, gli split screen, i ralenti, sono marche emotive. Ogni ricordo tende a un genere, ogni momento è quello di un film personale, ogni tensione è frutto di visioni e revisioni, un esistere che si vuole fortissimamente racconto cinematografico, e che si semplifica a esso. La vie est un roman. Et un film, surtout. Il tempo è instabile, umorale. È l'etica a dover essere salda, in tutta questa ri-lettura, in tutto questo spostamento, introiettato, astratto, romanzato del reale. L'etica, dice Paul, deve essere quella monolitica del cinema classico. Il «codice» del noir, del western, del mélo americano, il punto fermo in un'opera-mondo che eredita il senso del letterario di François Truffaut e il senso della dispersione di Jacques Rivette. Non c'è molto da dire, di Trois souvenirs de ma jeunesse. È uno dei migliori film in cui possiamo sperare.