TRAMA
1) Lo squattrinato Paletta non riesce a pagare la prostituta appena arrivata in città. 2) Un omosessuale, cinico e avido, ruba l’anello del suo compagno morto. 3) Il “Salvatore” (Totò) resuscita Lazzaro, che si vendica dei mafiosi che l’hanno ucciso.
RECENSIONI
Tre episodi, lo stesso universo: i “poveri cristi” figli de La Ricotta saranno tutti letteralmente messi in croce, dopo una via crucis cruda/grottesca/surreale con pedigree bunueliano. L’opera numero due degli autori italiani (siciliani: i sottotitoli sono necessari) più iconoclasti in circolazione aggancia subito la carrozza al vagone de Lo Zio di Brooklyn, proietta la sua sequenza più laida (l’uomo che monta un asino) e continua il discorso con un uso più marcato del commento sonoro, cambiando le citazioni, maturando nell’eludere l’autocompiacimento intellettuale, rischiando la monotonia con un’estetica difficilmente rinnovabile. Il primo episodio è un capolavoro, una folgorante favola “brutta” sul sesso dove, al posto dei cani de Lo Zio di Brooklyn, lo schermo è invaso dai maiali: è perfetta la scelta del volto del protagonista, Paletta, cristo innocente che sfugge il sentimento di pietà quando strabuzza gli occhi come un demente e si masturba in continuazione. Il pianeta è lordo, popolato da esseri depravati, tutti maschi adulti: non è misoginia ma scelta simbolica da un lato (un’umanità asessuata) ed estetica dall’altro (si evita di sconfinare nel porno “attraente”). Lo scopo è lasciare desolati in un pianeta desolante, senza ipocrisie. Se il plongée scopre un gruppo di uomini impegnati in una sorta di numero musicale, i passi di danza sono fatti con la minchia in mano, mentre i tuoni richiamano le bestie all’ordine e gli sguardi dal cielo non sono divini, ma la soggettiva di una puttana sul balcone. Nel secondo episodio si parla di avidità (arrivano i topi che rubano): un capitolo debole, costruito con i flashback in modo faticoso, troppo affidato alle “performance” e ai dialoghi, indeciso nei toni. È un omaggio al cinema macabro degli anni sessanta, con veglie funebri e dissacrazioni di tombe, love story con “vizietto” e stillicidio dell’idillio sentimentale. Gli autori ci ricordano quanto siamo miserevoli nelle nostre pulsioni primarie (sesso-denaro-cibo), visibili solo se scevre da sovrastrutture borghesi e false identità: è illusoria la bellezza se la carne si putrefarà. La lunga, insistita cavalcata della dissacrazione si fa scandalosa nel terzo episodio (il deficiente che fotte la statua della Madonna dopo averci provato con una gallina), un’esplicita rilettura del Vangelo: Totò è il diminutivo di Salvatore (un gesù burbero e triviale) ma è anche il nome del “Don” della mafia locale (interpretato dallo stesso attore…“due volte”, tre se si conta che era anche lo zio di Brooklyn). In questa associazione con scontro/incontro fra Bene e Male, i rimandi si fanno molteplici in tema religioso e politico. Due padroni governano la Sicilia: Chiesa e Malavita. Da antologia, pittorico, il quadro dell’angelo atteso da tre orchi panzuti e statuari. L’ultima cena, invece, è un festino orgiastico, con tanto di spogliarello. La bellezza secondo Ciprì e Maresco nasconde Dio e si nasconde nella bruttezza: fra splendidi campi lunghi fordiani, musiche celestiali (Bach, Mozart, Beethoven) e l’allegoria del peccato originale, è tangibile la bramosia di un Sacro che, per realizzarsi, va sporcato nel profano (l’angelo che pare benedirci e in realtà si porta le mani allo stomaco perché deve cagare; i fedeli con una mano rivolta al Cielo e l’altra sui coglioni), invocando un Dio che, forse, è morto. Il fantasma di Pasolini è richiamato anche dalle spurie polemiche che hanno accompagnato l’uscita del film, bloccato per oscenità blasfeme, sdoganato con un VM 18.