Biografico, Drammatico, Recensione, Storico

IL CATTIVO POETA

TRAMA

Primavera del 1936. Al giovane federale Giovanni Comini, di stanza a Brescia, viene assegnato dal Segretario del Partito Fascista Achille Starace l’incarico di sorvegliare Gabriele D’Annunzio, da 15 anni rinchiuso nel Vittoriale, per raccogliere su di lui informazioni di ogni tipo. D’Annunzio si è dichiarato contrario all’imminente alleanza fra Mussolini e Hitler, che il poeta definisce un “ridicolo nibelungo”, e il Partito non tollera il suo dissenso. Comini si reca al Vittoriale e da lì manda alla Casa del Fascio regolari rapporti su ogni attività del Poeta Vate, comprese quelle sessuali. Ma il suo legame con D’Annunzio cresce, e il dubbio sull’operato del Fascismo comincia ad insinuarsi anche nel convintissimo federale.

RECENSIONI

Al giovane e determinato federale Giovanni Comini viene assegnato dal Partito Fascista l'incarico di osservare un vecchio e affaticato Gabriele D'Annunzio, rinchiusosi in una sorta di esilio volontario all'interno delle mura decadenti del Vittoriale, con l'obiettivo di segnalare eventuali parole e atteggiamenti ostili al regime.
Dall'altra parte, al Vate, consegnata l'azione alla dimensione nostalgica e lontana del ricordo, non resta altro che osservare impotente un mondo che sta sprofondando inesorabilmente verso l'abisso. Ad accomunare Comini e D'Annunzio, il guardare (un gigante, un mondo); a distinguerli, almeno all'inizio, la consapevolezza di ciò che si sta osservando (e quindi vivendo).
L'ambizioso esordio di Gianluca Jodice (autore anche della sceneggiatura) è un film che pone il biopic nella luce forse più interessante, quella in cui la figura ingombrante che si mette in scena non è mai protagonista e fine ultimo del racconto, ma diventa testimone privilegiato e familiare di un mondo, di un frammento, di un sentimento, di un'epoca. Nonostante il titolo lasci presagire una centralità assoluta della sua figura, ne Il cattivo poeta D'Annunzio non è mai protagonista, bensì, esplicitamente e contemporaneamente, oggetto di un duplice sguardo (quello di Comini e il nostro) e lente attraverso cui osservare la Storia con gli occhi di chi aveva capito, prima di molti altri, la direzione che l'Italia aveva intrapreso. Guardare dunque, o meglio, saper guardare, con l'autonomia e la libertà di un poeta, significa anche criticare, mettere costantemente in discussione dogmi, convinzioni e imposizioni: è l'esercizio (poetico) dello sguardo che apre, nella coscienza di Comini, la strada del dubbio, il disgregamento delle facili (e quindi errate) certezze promulgate dal regime fascista.

Questi movimenti dello sguardo e questa continua tensione tra vedere il mondo e comprenderne, anticiparne le sue direzioni, mi sembrano le cose più interessanti di un film che cerca (trovandola solo a tratti) una teatralità solenne e malinconica, in cui gli ambienti assumono un valore decisivo: il Vittoriale in cui è rinchiuso D'Annunzio infatti, diventa al contempo luogo della memoria (di un passato energico in cui l'azione aveva sempre la meglio sull'osservazione), isolamento volontario e protezione da un presente di cui si è compresa anzitempo la tragicità, ma anche inquieto e imminente monumento funebre (di una vita e di un mondo). Un ambiente che, ovviamente, diventa palcoscenico: come la Hammamet del Craxi evocato da Gianni Amelio, con cui Il cattivo poeta condivide non solo l'evidente desiderio di sposare una narrazione e una messa in scena apertamente teatrali, ma anche lo sguardo su(alla fine) di un personaggio complesso e di un'epoca. Laddove però Amelio optava per una decisa rimodulazione della realtà (omettendo nomi, inventando personaggi e riuscendo anche a lavorare, con Favino, su un ingombrante e interessante concetto di maschera), Jodice affida tutta la sua ricerca alla cupezza delle immagini (la fotografia è di Daniele Ciprì) e alla gravosità del ritmo narrativo. Per questo, pur mantenendo a tratti un certo fascino, resta un'operazione molto più superficiale, in cui l'accostamento dei due linguaggi, insieme ad una scrittura prosaica che dice sempre troppo e ad un'interpretazione, quella di Castellitto, incisiva solo a metà, non sempre riescono a scalfire l'immediata evidenza della messa in scena.

È però anche un film che cerca un certo rigore (gliene va dato atto, al di là dei risultati, ed è un bel merito) e che offre, non importa se per intuizione o per comodità, una coerente e interessante rappresentazione di Mussolini. La sua apparizione nella seconda parte del film infatti, in fin dei conti, non è diversa dalle statue e dalle immagini del Duce che abbiamo visto fin lì: anche nella sua presenza, Mussolini è prima di tutto un simbolo, un corpo senza volto, eppure riconoscibilissimo, una figura dal contorno noto e dalla camminata implacabile; non persona, ma immagine e quindi, prima di tutto, veicolo di idee che hanno un effettivo potere sul mondo. Per comprendere questa immagine, per capirne davvero il suo potere terribile e devastante, bisogna, ancora una volta, imparare a guardare; magari con l'occhio critico di un poeta.