TRAMA
Brooke e Gary, sposati, si lasciano ma continuano a vivere nella stessa casa, in attesa che venga venduta.
RECENSIONI
Autore di quel gioiellino postmoderno che era Abbasso l’amore, tra le operazioni più intelligenti/divertenti che siano state azzardate su un genere dal cinema commerciale americano negli ultimi anni, Peyton Reed fa una nuova ricognizione nella commedia classica cercando di rivitalizzarla, operandoci all’interno. Molto concentrato sul discorso conflittuale (splendidamente sbrigativa la questione incontro&matrimonio, sintetizzata da un prologo – che è un marchio profetico sulla relazione dei protagonisti - e uno stream fotografico sui titoli iniziali), The break-up (inutile commentare il disdicevole titolo italiano) si riconnette non solo alla commedia d’antan (il conflitto nella coppia è, come da tradizione, quello tra i due sessi, caratterizzati all’estremo mica a caso) ma anche a quella più recente (tanto per dirne una: la variazione agrodolce di A proposito della notte scorsa di Zwick – lì l’origine era una pièce di Mamet –, analisi del rapporto a due tra le più sottovalutate di sempre, complici le schegge del Brat Pack che lo abitavano). Reed scava nella questione passando attraverso stazioni di prammatica (le cene, gli amici, le telefonate, le scaramucce sul terreno comune) ma con una dose di amarezza in più che, senza compromettere il registro brillante, lo arricchisce di alcune tonalità (non mancano i siparietti brutalmente comici, si pensi soltanto all’esilarante scena in cui si canta a tavola Owner of a lonely heart degli Yes). Non rinunciando neanche alle immancabili figure di contorno (spicca Judy Davis, amabile gigiona), il film, se appare stilisticamente indeciso tra una canonica forma paratelevisiva e certe ricercatezze lasciate abilmente sottotraccia (la macchina a mano che sottolinea fasi di dialettica concitata), è d’altro canto piuttosto sottile nel rendere il percorso di questa coppia che dall’amore arriva alla meschinità incrociata, complice un mondo circostante che relega immediatamente la crisi in un circuito obbligato, più forte della stessa volontà primaria dei protagonisti. Condito dalle splendide musiche di Jon Brion (stratega sonoro che ha invaso da pochi anni, col suo deviato sperimentalismo ambient-pop, tutto il cinema americano che fa tendenza, da quello più riuscito – Eternal sunshine – a quello più contorverso – I Heart Huckabees), basato su un soggetto cui ha collaborato lo stesso protagonista Vaughn, il film, ben interpretato (la Aniston è deliziosa, il doppiaggio da esecuzione sommaria), anche se osa meno di quanto vorrebbe, non scardinando mai il meccanismo (gli strappi alle dinamiche tradizionali sono fin troppo accorti), gioca però bene sui pochi ma acuti sovvertimenti: il concerto che diventa appuntamento mancato; la cena finale, che fallisce, ma sulla base di fatti che si rivelano completamente diversi dalle apparenze – e l’inquadratura sulle porte dell’ascensore che si chiudono su Vaughn per riflettere quello che si ritiene essere il nuovo pretendente è una vera raffinatezza -; il finto disimpegno della scena finale: l’esplosione dell’ipocrisia, che lascia, dietro il sorriso fintamente educato dei protagonisti, un intimo disastro, il desolante ground zero dei sentimenti.