Drammatico, MUBI, Recensione

THE FUTURE

Titolo OriginaleThe Future
NazioneU.S.A., Germania
Anno Produzione2011
Durata91'
Sceneggiatura
Montaggio
Musiche

TRAMA

Jason e Sophie decidono di adottare un gatto. Una scelta che porterà definitivamente alla luce la ristrettezza delle loro prospettive esistenziali.

RECENSIONI

Sophie - We'll be 40 in 5 years.
Jason - Oh. 40 is basically 50, and then after 50 the rest is just loose change.

Nel buio una vocina querula e metallica, chiaramente artefatta (è della stessa regista), interpella lo spettatore chiedendogli di immedesimarsi per un attimo nella sua condizione. Chi parla (sì, parla) è un gatto randagio, ribattezzato Paw-Paw dalla coppia che l'ha trovato per strada con una zampetta insanguinata e ha deciso di prendersene cura portandolo in una clinica veterinaria. Suoi commenti puntelleranno ciclicamente la narrazione, riflessioni malinconicamente lucide sull'affetto, la dipendenza dall'altro, la scoperta del tempo dell'attesa, la morte. Del felino si vedranno solo le zampe, vistosamente posticce, una delle quali opportunamente fasciata, attraverso le sbarre della gabbia dentro la quale attende di essere portato via ed amato per sempre: marionetta animata dai fili di un misurato spleen, feticcio di una nuova creatura che deve ancora venire alla luce per la quale la vita è una fragile ipotesi, Paw-Paw è un peluche malinconico che proietta con garbo sui protagonisti le ombre lunghe dell'infantilismo e della sterilità (fisica ed emotiva).

Jason e Sophie sono due trentenni, esemplari hipster dal basso profilo, che vivono assieme in un piccolo appartamento losangelino passando la maggior parte del tempo chini sui rispettivi portatili, parecchio annoiati dalle loro attività lavorative (lui fornisce assistenza tecnica al telefono direttamente da casa per una società di computer, lei è una svogliata insegnante di danza per bambini). Sono anche una coppia benché il loro rapporto appaia privo di qualsiasi dimensione erotica e più simile a quello tra due fratelli o coinquilini. Per staccarsi dall'immobilismo nel quale le loro vite sembrano essere intrappolate i due decidono di dare uno scossone alla loro logora routine adottando un gatto malmesso. Il concetto di responsabilità entra così prepotentemente, come una salvezza e una minaccia al tempo stesso, a cercar di scuotere la stasi acquitrinosa della loro partnership domestica. L'animale, affetto da un'insufficienza renale che gli garantisce un’aspettativa di vita da sei mesi a un più improbabile periodo di cinque anni (ci vorranno molto amore e molta dedizione perché ciò avvenga, specifica la dottoressa che se ne occupa), tenuto in osservazione presso la clinica nella quale è stato portato per essere curato, verrà affidato ai genitori solo dopo trenta giorni, termine entro il quale se non reclamato potrebbe essere soppresso per sovraffollamento della struttura. Un mese che Sophie e Jason vivono come un ultimatum, l'ultima opportunità per fare qualcosa di gratificante prima di avere a che fare con le priorità e i doveri dell'età adulta, l'ultima occasione per realizzare i propri sogni, se ne sono rimasti o se ci sono mai stati. E dunque al diavolo le loro alienanti occupazioni, basta con la connessione internet che sottrae ore preziose ed eccoli pronti ad altri stimoli professionali o slanci artistici. Tutto ciò, però, sulla carta.

Le nuove occupazioni dei due mostrano infatti ben presto la corda: lui alle prese con la vendita porta a porta di alberelli per conto di una sedicente organizzazione ambientale che combatte il riscaldamento globale, lei con un velleitario progetto artistico che prevede la realizzazione di trenta video di danza minimale da caricare su YouTube per altrettanti giorni di seguito (nella teoria, una sorta di danza-metronomo, un rito propiziatorio e/o esorcizzante). Di fatto, l'unica vendita effettuata da Jason vedrà come acquirente la stessa fidanzata, la sua nuova attività portandolo solo a stringere amicizia con un vecchio e solitario signore che alcuni inquietanti segnali (stessi poster, stesse chincaglierie nelle abitazioni dei due uomini) porterebbero a indicare come sua ipotetica versione anziana mentre Sophie non riuscirà a realizzare neanche uno dei suoi balletti, afferrata dal terrore della prestazione ogni volta che si appresta ad iniziarne uno, distratta da mille vuoti dettagli casalinghi, in preda a un panico tanto sottopelle quanto soffocante (l'unico che porterà a termine sarà una goffa e rivelatrice performance privata, di buffa tristezza, effettuata con l'ausilio di una t-shirt animata). I sogni si rivelano angusti, le prospettive di vita limitate, i progetti (individuali e di coppia) fallimentari, scacco e inerzia imponendosi come principali coordinate esistenziali (nella sequenza iniziale i due appaiono bloccati e incastrati sul divano, in difficoltà perfino per andare a prendere un bicchier d'acqua). E l'idea di una nuova vita da accudire, quella del gatto che con pazienza continua ad aspettare il loro arrivo, scivola progressivamente verso presagi di morte.

Al secondo lungometraggio, l'artista multimediale Miranda July aggiusta il tiro. Se nel pluripremiato e lodato (fin troppo, per chi scrive) Me and you and everyone we know si rifletteva sulla difficoltà di creare dei contatti, in The Future l'attenzione è rivolta a cosa di quei contatti, una volta instaurati, rimanga e a come mantenerli, con un occhio di riguardo per la generazione dei trentenni. Il tono dell'esordio, quasi un Todd Solondz ingentilito e smussato dei suoi tratti più aspri, lascia il campo a un cifra più personale e meno conciliante, più autenticamente amara. La bizzarria più o meno arty, territorio espressivo inviso a una buona frangia di detrattori (non senza ragioni) nel quale la July continua comunque a muoversi, assume sfumature cupe, sanamente inquiete, attraversate da umori deadpan a un passo dalla smorfia di dolore. The Future, come il suo stesso titolo al contempo vago e inappellabile sembra indicare, finisce per porsi come meditazione, sottilmente desolata, sullo scorrere del tempo e sull'incapacità di capirlo, misurarlo, sfuggirlo, possederlo, trarne profitto. Già al centro di uno dei momenti migliori del suo primo film (la passeggiata per l'isolato misurata passo per passo come metafora di un'intera esistenza di coppia), la July ne fornisce stavolta una lettura più disillusa, priva di brecce salvifiche, in cui il surreale sfiora l'incubo (la ragazzina che scava una buca in giardino nella quale seppellirsi fino alla testa) e la dimensione magica, preponderante nella seconda metà del film, non libera ma acuisce il senso di paralisi: riuscito a fermare il tempo (il suo tempo ma non quello altrui), Jason interroga la luna che non sa fornirgli alcuna risposta (I don't know anything, I'm just a rock in the sky, afferma l'astro), vaga in un mondo inebetito senza risolvere nulla mentre Sophie in un rimescolarsi di realtà parallele e piani cronologici (i figli delle amiche che crescono in un batter d'inquadrature) si ritrova catapultata in un'altra vita, più comoda ma ugualmente frustrante, uno sliding doors mesto perché privo di un'autentica alternativa.

Attrice mediocre (efficace invece il suo partner sullo schermo, Hamish Linklater), la July nel suo filmare sembra ancora puntare più al cosa che al come, prigioniera di eccessi di scrittura (la concettosità di alcuni dialoghi, le modalità dell'incontro di Sophie con l'uomo che diventerà il suo amante, le dinamiche del tradimento stesso) che frenano il respiro della messinscena, imperniata su un realismo attonito slittante in un surrealismo spoglio. Eppure The Future, opera fragile e fragilmente crudele che gira a vuoto, studiatamente involuta, esattamente come i suoi protagonisti, supera la soglia del "carino" (dove si fermava invece il lavoro precedente) suonando più di una volta sinceramente inquieta. La sequenza finale sui titoli di coda sembra suggerire un'altra prodigiosa sospensione temporale ma il fermo immagine è solo apparente e un improvviso sfogliar di pagine ad opera di un corrucciato Jason spezza l'illusione di un ennesimo incantesimo: il tempo passa incurante di noi e delle nostre percezioni, il futuro arriverà in men che non si dica e sarà un altro insondabile presente.