TRAMA
Vita e affanni della viennese Maria Antonietta a Versailles, sposa del futuro Luigi XVI, dalle nozze al fatidico 1789.
RECENSIONI
Sofia Coppola è una regista abbondantemente sopravvalutata che realizza “solo” buoni film, e quest’ultimo, accolto tiepidamente a Cannes dalla critica non francese, non fa eccezione. Sebbene l’autrice di Il giardino delle vergini suicide sembri inizialmente aspirare a vivisezionare, con spirito da entomologo, il dorato e fatuo (altro) mondo di Versailles, con i suoi rituali, i doveri dell’etichetta, il Petit e il Grand Trianon, le fontane zampillanti e la Galerie des Glaces, presto, molto perspicacemente, si accorge di non poter eguagliare Kubrick, abbandona la via del Maestro ed imbocca quella di Bridget Jones.
Il racconto biografico della giovane Maria Antonietta, di origine austriaca, si trasforma così in una piacevole commedia sentimentale e di formazione che solo casualmente ha per décor le tappezzerie, i divani, le sedie Luigi XIV, i proliferanti specchi suscettibili di produrre involontarie mise en abyme e per costumi le sfavillanti invenzioni della grande Milena Canonero; che solo accidentalmente incappa nella Storia (il 1789, la rivoluzione, la boutade delle brioches) e che giustamente, in colonna sonora, mescola l’inevitabile Romeau e i giovani Air (vale a dire: la musica del rito, del coté pubblico, degli altri e le melodie dell’intimo, del privato, di lei).
I patimenti della giovane delfina diventano paradigma di “genere”, dal momento che coincidono con i turbamenti e le angosce che sconta ogni adolescente al momento del suo ingresso in società. Nel caso specifico, Maria Antonietta sopravvivere alla routine inventandosi un “micromondo” impenetrabile proprio come le giovani suicide, supplendo istericamente ai deficitari piaceri della carne ed esorcizzando il paradosso di una solitudine sottoposta perennemente allo sguardo indiscreto delle damigelle o dei paggetti della corte ingozzandosi di dolciumi o scritturando lo stilista più in voga, in grado di regalarle improbabili mise ed acconciature che avrebbero fatto risparmiare la fatica di una caricatura a un Daumier.
Coppola è abile nel mescolare le carte, nel pedinare la donzella nelle stanze della reggia, nel cogliere i rari momenti di tenerezza ritagliati tra pranzi e cene consumati sul proscenio e battute di caccia: gli imbarazzi ed i tentennamenti del giovane fessacchiotto Luigi XVI nell’alcova, più interessato allo studio delle serrature che alla pratica sessuale; la libertà finalmente raggiunta con la piccola figlia nel Petit Trianon, che coincide singolarmente con la scoperta della dicotomia Natura/Civiltà (tramite Rousseau); la liaison, neanche tanto clandestina, col bel soldatino olandese, di ritorno e pronto a ripartire per il fronte americano, conosciuto dalla delfina durante un ballo in maschera à la Baz Luhrmann; l’attesa snervante nelle anticamere durante l’invasione della reggia da parte della folla inferocita (resa acusticamente, e con straordinaria efficacia).
Cast all’altezza, dalla vitale Dunst al rigidissimo Schwartzman, dalla maliarda Madame du Barry versione Asia Argento alla sempre luminosa Aurore Clément.
Più che un romanzo storico, un efficace e ben impaginato manuale per giovani ragazze di buona famiglia e non. Ed in questo consiste l’originalità (più che la modernità) della lettura della regista: nell’aver utilizzato la Storia ed i suoi orpelli come sfondo nel quale calare un itinerario metastorico e come pretesto per redigere, con grazia e sensibilità, il terzo capitolo della serie “ragazze smarrite”, aggiungendo un nuovo tassello al proprio mosaico di figure femminili in fieri, iniziato con le vergini suicide e proseguito con la splendente e sfuggente Charlotte di Lost in Translation.
«Marie Antoinette c'est moi» potrebbe dire la regista, la delfina a tutto shopping, dall'infanzia inevitabilmente dorata, catapultata suo malgrado in un mondo adulto (Questa è Versailles = That's Hollywood), la 'figlia di' che ha sempre avuto tutto (e adesso dà anche sfogo al gigantismo che fu del papà), ma pagandolo caro, a lungo incompresa e osteggiata da chi la circondava (i pianti e i rigorosi riti - apparizioni, soirée-berline e flash cui sottoporsi -, il chiacchiericcio malevolo della corte/jet-set): non è un caso che la vicenda umana della protagonista (facile rinvenire, in questo fulmineo percorso di traumatica iniziazione e dolorosa fine, il fil rouge che lega Marie Antoinette agli altri lavori dell'autrice) sia filtrata attraverso la sensibilità e il mondo dell'adolescente che Sofia Coppola fu (e questo spiega non solo la spiazzante e poppeggiante colonna sonora, ma anche la prevalenza, in essa, di pezzi new wave anni 80; e ancora che i consigli sulla condotta da tenere a palazzo - ma fuori cosa sta succedendo? - vengano da un'ambita mamma rock - la voce di Marianne Faithfull, prevalentemente fuori campo, è tra le cose più belle dell'opera: ditele pure addio, italiani tapini, ostaggi del doppiaggio -).
Peccato però che questa impronta, questo sottile appropriarsi del personaggio, modernizzato poiché idealizzato, rimanga vezzo autoriale soltanto accennato (la lunga sequenza prettyinpink - gli acquisti smodati della ragazzina, acconciature-dolci-scarpe-nastrini a gogò, le chiacchiere con le amiche - che sembra tratta, appunto, da un teenage movie di un ventennio fa), l'opera funzionando soprattutto negli altri momenti, quelli in cui si girano (in ogni senso) le pagine de 'il libro-una vita' della (s)fortunata regina, soffermandosi su certi episodi (la reggia è un megateatro emotivo), inquadrando figure in movimento, senza nessuna urgenza di approfondire un carattere o di effettare un'immagine, senza cadere mai nella tremenda (poiché ipotetica) introspezione o nel fatuo fuoco d'artificio visivo, mantenendo lo sguardo saldamente in superficie, lasciandolo scivolare felicemente tra pubblica magnificenza e tenera intimità.
Tra la soffusa morbidezza di Watteau e la maliziosa opulenza di Fragonard, Sofia Coppola sbozza elegantemente la vicenda della “sua” Maria Antonietta in perfetto equilibrio tra caratterizzazione psicologica e osservazione comportamentale. Nella prima parte abbondano le notazioni intime e le sfumature emotive (dall’angelico candore del viaggio in carrozza alle calde lacrime di Versailles passando per la malignità dell’astioso pissipissi di corte), mentre nella seconda (dalla morte di Luigi XV in poi) l’analisi caratteriale lascia spazio alla descrizione delle situazioni, abbandonandosi maggiormente alla varietà e all’imprevedibilità degli eventi. Fiancheggiata dall’estro luministico di Lance Acord (già direttore della fotografia di Lost in Translation), la trentacinquenne cineasta newyorkese riserva alle due parti un trattamento filmico fortemente differenziato: se nella prima sta molto addosso a Maria Antonietta (una Kirsten Dunst sottile e guizzante) imprigionandola nelle opprimenti architetture della reggia, nella seconda lascia che le inquadrature respirino maggiormente, rompendo le rigide simmetrie visive di Versailles con squarci ariosamente trasgressivi e lasciando che un’allegra ventata di disordine scompagini la rigorosa etichetta di corte. Chi scrive ha preferito quest’ultima, soprattutto in virtù di una maggiore inafferrabilità, ambiguità e levità stilistica. Osservazione eccentrica: le sequenze en plein air (soprattutto quella col Conte Fersen) mi hanno ricordato un film sublime e osceno al tempo stesso, Elvira Madigan (1967) di Bo Widerberg. Letteralmente imprescindibile.