TRAMA
L’emozionante storia dell’impresa di una squadra non convenzionale che, con in gioco il proprio futuro, compie una scommessa decisiva.
RECENSIONI
Live By Night, di nuovo da un romanzo di Dennis Lehane, come l’esordio, Gone Baby Gone, non era certamente un film perfetto; nondimeno mi sembra che, ai tempi dell’uscita in sala (fu un flop, dalle nostre parti, e lo stesso in patria: poco più di dieci milioni di dollari negli Stati Uniti, secondo Box Office Mojo), lo si sia liquidato con eccessiva fretta, quasi per dare credito a quella profezia auto-avverata del “te l’avevo detto” che, in un modo o nell’altro, ha sempre caratterizzato la carriera di Ben Affleck, troppo divo da rotocalchi per essere preso sul serio come regista (perché, poi?), troppo quarterback per poter ambire a ruoli drammatici d’autore. Ma come il bumblebee – che in italiano diventa un calabrone, ma forse è il bombo – della famosa storiella paradossale, Ben Affleck non lo sa e la sua carriera, altalenante, come quasi tutte le carriere, mai tuttavia sciocca (si pensi a Gone Girl, a To the Wonder, ma pure al complesso ruolo in The Accountant), vola lo stesso. Si notavano, ne La legge della notte, varie discontinuità nel racconto: personaggi eccessivamente abbozzati e poco efficaci come pure la ricerca di una tragica epopea che non arrivava mai a compiersi realmente, tanto che alcuni climax risultavano quasi smorzati, soffocati da una risoluzione forse troppo poco empatica. Eppure Affleck sapeva imbastire un racconto della vecchia America dal respiro ampio, profondo, narrando il già sentito e il già visto dalla prospettiva di un antieroe per vocazione e per necessità. Non era tale, in modo risaputo e programmatico, in quanto gangster disposto a sporcarsi le mani, ma lo era senza dubbio in quanto uomo incapace, ahilui, di forzare l’esito incerto della fortuna con il grimaldello dell’audacia; quando il protagonista agiva era spesso troppo tardi e il destino aveva già scelto per lui. Intelligente e generoso, anche come interprete, Affleck riusciva a fare anche altro, per esempio a creare figure femminili a tre dimensioni, stereotipi solo a una prima occhiata distratta. Le donne della vita di Joe apparivano piuttosto come tangenti ai tre luoghi psichici freudiani, ma non lo erano nel senso di puri cliché. In modo controverso, irrisolto, ragionavano sul concetto di libertà e, in qualche forma, era proprio il gangster sul viale del tramonto criminale a fare da sintesi alle loro aspirazioni, ridimensionando la propria hỳbris da I want it all (quello, in effetti, un bel topos di genere), ritornando sinceramente, drammaticamente e con disincanto soltanto un uomo. La legge della notte era un film sul quale aleggiava, suo malgrado, mi verrebbe da dire, visto il momento personale del regista e le traversie produttive in cui incorse, un sempiterno zefiro di morte: il lutto in/di un genere, di un sogno (ma che sogno era?), di una nazione. Per questo mi pare, anche se può suonare paradossale, che, per Air – La storia del grande salto, Ben Affleck abbia guardato con indulgenza al suo precedente, fallimentare progetto, se non altro in termini economici – è il capitalismo, bellezza – non meno di quanto si sia riferito ai fasti di un lavoro come Argo, buon film di ritmo e di incastri, denotato da qualche furberia narrativa – propagandistica? – di troppo.
Perché Air, scritto con gran brio, recitato con altrettanta verve da chiunque vi appaia, anche per una manciata di secondi, mi è sembrato un film perlomeno ambivalente. Da una parte assistiamo senza dubbio alla messa in scena di un miracolo del mondo capitalistico e consumistico – il contratto di Michael Jordan con la piccola Nike, per ciò che concerneva le sponsorizzazioni del basket, che lo legherà indissolubilmente al marchio e viceversa – dall’altra guardiamo una nazione con le lenti opache della disillusione e di quella sorta di propaganda a stelle e strisce, declinata in chiave ironica, certo, che in Argo si faceva beffa dei pasdaran.
Il sogno/i sogni (di nuovo: quali sogni?), il successo vs il possibile fallimento, se l’accordo non fosse andato in porto, valori umani che si intrecciano con i mantra di un sistema di produzione disumanizzante, riportati – enfatizzati, dunque – a chiare lettere sul grande schermo: nasci, produci, consuma, crepa. Allora siamo proprio sicuri che Air – La storia del grande salto contenga in sé l’univoca esaltazione degli ideali del capitalismo più sfrenato e di un altrettanto sfrenato nazionalismo («mi dica le parole e basta», ammonisce Deloris Jordan, quando Vaccaro azzarda la parodia dell’accento tedesco dei capi dell’Adidas)? Non occorre neppure far riferimento all’ambiguità – mica tanto, se la si ascolta – del testo di Born in the U.S.A, citato da un personaggio e poi fatto sentire nella voce di Springsteen, non a caso sull’approssimarsi del finale: I had a brother at Khe Sahn/ Fighting off the Viet Cong/ They're still there, he's all gone/ He had a woman he loved in Saigon/ I got a picture of him in her arms now.
È infatti sufficiente notare come il film provi a dipanare il concetto complesso di identità. Lo si nota in una scena in particolare, quella nella quale ha luogo il primo incontro tra la madre del giovane Michael e l’intraprendente emissario della Nike, interpretato da Matt Damon. La donna chiede a Sonny Vaccaro conto del suo nome. Ma il nome proprio è troppo comune per necessitare di ulteriori spiegazioni, non è da escludere quindi che la richiesta riguardasse piuttosto il cognome. Sonny però non è il suo cognome o le origini italiane della sua famiglia: l’identità, comunque la si possa o voglia definire, è altro. Dunque risponde in modo imprevisto, dando un’informazione che non ha a che fare con l’advertising da squali o con la persuasione pubblicitaria, ma che, a mio avviso, rappresenta il vero e proprio gancio che lo porta alla conclusione dell’affare, più ancora di quella accorata perorazione che ricorda il carousel di Mad Men. Dice, vado a memoria, mia madre mi ha chiamato così (Sonny/sunny) perché il giorno in cui mi ha partorito splendeva il sole. L’identità magari è un senso, è poter dare un proprio senso: la parola Nike in greco ha un significato ben preciso, ma per qualcuno, all’oscuro dell’etimologia, è un termine che non vuol dire nulla. Michael Jordan, a cui spesso è stato rimproverato di essersi occupato troppo poco, negli anni dell’agonismo, di temi sociali, è un’icona, un mito, la pietra angolare di una “rivoluzione commerciale” che, ci dice Air, non cercava affatto e che in minima parte è dipesa da lui, dato che è stata la sua lungimirante madre a spingere per una più equa ripartizione degli utili tra multinazionali e atleti, se così è lecito chiosare. Non è nemmeno vero che Jordan sia il convitato di pietra, la non-presenza presentissima che, mi si perdoni il salto logico, era raffigurata dal T-Rex – in senso cinematografico, il suo ruolo di idolo non è secondo a nessuno! – in Jurassic World; nel film di Trevorrow, il grande assente invocato ed evocato, faceva un’apparizione finale da diva, salvando le terga agli astanti. Jordan no, Jordan non è assente, è letteralmente – e non può essere un caso, né una svista, né un errore grossolano – un ragazzo che dà le spalle. Opportuno chiedersi, al di là della prossemica, cosa questo significhi, anche alla luce del dialogo tra Sonny Vaccaro e George Raveling sul reverendo King (che le spalle non le ha mai voltate)…
Affleck, lungi tuttavia dall’imputare qualche presunta mancanza al cestista dei Bulls, ragiona sulla celebrità, edificando un racconto che si interseca con l’illusione, riflettendo poi sull’apparentamento del processo mitopoietico con la costruzione di una filogenesi identitaria imperfetta, per certi versi persino delirante, quando riempiamo la divinità sportiva o attoriale di aspettative irreali, solo nostre; dalle informazioni che sono riuscita a reperire su questa vicenda, molto di ciò che vediamo non corrisponde a verità. Non ha importanza, anzi, ne ha, eccome se ne ha, se si allontana l’abbaglio della mera glorificazione del brand e si considera la lucidità, non priva di qualche faciloneria, dell’assunto: una racchetta da tennis è solo una racchetta da tennis, se non è quella usata da Arthur Ashe, una scarpa è solo una scarpa fino a quando mio figlio non la indossa. Fanno rima con una perla di cinismo – altro che esaltazione acritica – quale: «quello che chiami amore è stato inventato da gente come me per vendere i collant.» Sempre sia lodato Don Draper! In fondo non è tanto dissimile neppure da ciò che partorisce la maturazione di Jordan Belfort in The Wolf of Wall Street: il “vendimi questa penna” a un certo punto non corrisponde più strettamente a un bisogno, ma alla dimostrazione di un preciso status, all’introiezione del mito che diviene oggetto di culto laico. La penna non è una penna perché serve per scrivere il proprio numero di telefono su un foglietto: la penna è quella penna. È la tautologia malata del consumismo al massimo grado di potenza: ogni salto del resto prevede una caduta. Michael Jordan è un simbolo, una leggenda e leggendarie sono le Air Jordan, più belle che funzionali, appunto: il regista non si sottrae, pur deridendo, attraverso il personaggio di Vaccaro, l’ossessione per il fitness. E questo sì, è cinema puro, fino almeno dai tempi gloriosi di Liberty Valance e degli uomini che lo uccisero: «when the legend becomes fact, print the legend.» Ben Affleck non è Clint Eastwood che ha interiorizzato Leone che aveva interiorizzato John Ford ed è rimasto, sempre e comunque, anche quando si innamorava della dolente, infelice Francesca o seduceva, al completo, una specie di collegio di vergini suicide, quel pistolero solitario del vecchio West. Non lo è e non credo possa ambire a diventarlo, sempre ammesso che lo voglia. Ma che importa, alla fine? È così bravo che può benissimo permettersi di essere soltanto Ben Affleck.