Focus, Horror, Netflix, Recensione

THE LIGHTHOUSE

NazioneU.S.A., Canada
Anno Produzione2019
Genere
Durata109'
Fotografia
Montaggio
Scenografia
Costumi

TRAMA

Fine ‘800: un uomo di nome Ephraim Winslow accetta un lavoro di un mese come guardiano del faro su un’isola sperduta al largo delle coste del New England. A fargli da supervisore c’è il più anziano Thomas Wake, che si rivlereà sempre più irascibile e dispotico.

RECENSIONI

A differenza di The VVitch, in cui le tracce orrifiche venivano infine abbracciate, il nuovo affresco di Eggers è un dramma allucinato, ispirato ad eventi occorsi a due gallesi nel 1801, con sentori lynchiani nell’horror vacui. La scelta della fotografia in bianco e nero non potrebbe essere più consona, per l’ambientazione su di una roccia sferzata dalle onde, nell’isolamento fra carbone, fango, pioggia, lume di candela e petrolio: ancora centrali la cura storiografica con affabulazione (i teatrali soliloqui di Dafoe), l’importanza del mezzo e formato (il 35mm con lenti dei primi del Novecento quadra l’immagine), la stilizzazione non al servizio dell’intellettualizzazione autorale ma del racconto stesso, come cinema di genere vuole, pur passibile di ulteriori letture e interpretazioni. Il tema del logorante senso di colpa (forse omofobico) s’accompagna al simbolismo della luce del faro che, da boa del privilegio diventa segno divino cui dedicare rituali, passando per il fuoco del Prometeo divorato da volatili: nella solitudine, i due protagonisti sono toccati dalla follia, con il giovane che ne diventa vittima e il vecchio che la indossa come un’abitudine con cui giocare e danzare nei fumi dell’alcol. Immagini contrastate espressionistiche (gli scogli a sipario per mostrare il corpo nell’acqua, la ripresa dal basso a stagliare il gioco d’ombre sul volto di Dafoe), presagi sinistri lovecraftiani (soggettive stregate di sirene, mostri, teste di cadavere, gabbiani vessatori), spaventosi e mitologici tableaux vivants di derivazione pittorica, lavoro ancora lynchiano sul sonoro che amplifica le scene disturbanti, declinando i versi dei gabbiani e della sirena. Unico neo, enfasi che serve l’effetto master and servant più della sua verosimiglianza, la parte in cui il vecchio accondiscende a farsi trattare come un cane dal giovane che, fin lì, ha tormentato.

Ci sono espressioni e aggettivi che, ormai, in sede critica suonano talmente stantii da risultare decisamente inutilizzabili. L’interpretazione “da Oscar”, la regia “magistrale”, la pellicola “scomoda”, il finale “struggente” sono solo alcuni tra le dozzine di esempi possibili. Un altro autorevole esponente della categoria è senz’altro il Film Pretenzioso. Ma il caso The Lighthouse è talmente eclatante da imporre uno strappo alla regola (non scritta). Se non è pretenzioso questo, voglio dire, quale film lo è? Come nel precedente The VVitch, Robert Eggers sembra molto più interessato a farsi bello che a girare un film bello. Si interessa al dettaglio, persegue l’eleganza, ostenta ambiguità ma finisce per perdersi e, soprattutto, per perdere di vista il fatto che un film è qualcosa di più della somma delle sue parti. E che soprattutto, queste parti devono comporre un insieme coerente, sensato.

Prendiamo la scelta del formato 1,19:1. Per citare l’epoca del Muto? Ok. Magari per dilatare il fuoricampo e rendere più opprimenti le inquadrature? Concediamoglielo. Poi però Eggers utilizza lenti e filtri anni ’30, post-muto, e già ti chiedi dove voglia andare a parare. Il bianco e nero contrastato fa molto espressionismo tedesco, certo, ma poi vedi il taglio delle inquadrature e ti accorgi che c’è più Dreyer che Murnau e che, soprattutto, le citazioni visive più smaccate vanno dritte a Citizen Kane (cinepresa piazzata in basso, che mostra i personaggi oppressi da un soffitto che incombe). Dunque? Il sospetto è che Eggers abbia tanta voglia di fare, di ostentare cultura cinematografico/cinefila senza avere una precisa idea di cinema. Tutto il film soffre di questa ansia da prestazione, di questa voglia di strafare con i rimandi, le ricercatezze, le stranezze. L’inglese arcaico masticato dai personaggi – sovente indecifrabile - diventa ben presto un vezzo tirato per le lunghe, l’insistenza sulla “grande prova d’attori” è intenzionale e smaccata, le citazioni letterarie sanno di campionario (Poe, il Lovecraft tentacolare e poi Coleridge, Melville, Sarah Orne Jewtt), le sequenze oniriche (?) dislocate arbitrariamente (la sirena), l’evocazione dei miti (Prometeo, Sisifo) “tanto per”, il finale enigmatico, e ci mancherebbe altro.
C’è un sacco di roba, in The Lighthouse, ma manca proprio il film. Horror concettuale? Grande Metafora? Esercizio di stile? Difficile dirlo. Di certo, il tutto è presentato con supponenza, raffinato fumo negli occhi che rischia già, al secondo film, di diventare cifra. Perché quando il fumo si dirada rimane l’inconcludenza e ci si accorge che manca tutto: tensione, suspense, empatia per i personaggi, interesse di un qualche tipo, che esuli dal cinecosmetico. Per chiudere come avevamo iniziato, con una definizione irricevibile, Eggers è solo a inizio carriera ma potrebbe già essersi guadagnato il titolo di Regista Sopravvalutato.