TRAMA
Nel 1953, Stan Laurel e Oliver “Babe” Hardy partono per una tournée teatrale in Inghilterra. Sono passati sedici anni dal momento d’oro della loro carriera hollywoodiana e, anche se milioni di persone amano ancora Stanlio e Ollio e ridono soltanto a sentirli nominare, la televisione sta minacciando l’abitudine culturale di andare a teatro e molti preferiscono andare al cinema a vedere i loro capolavori del passato oppure i nuovi Gianni e Pinotto, piuttosto che scommettere sulle loro esibizioni in teatrini di second’ordine. Eppure i due vecchi compagni di palcoscenico sanno ancora divertirsi e divertire, e la tournée diventa per loro l’occasione di passare del tempo insieme, fuori dal set, come non avevano mai fatto prima, e di riconoscere per la prima volta il sentimento di amicizia che li lega.
RECENSIONI
«Stan e Ollie sono morti sfidandosi,
hanno sorriso con un gesto accigliato
e hanno rifiutato di essere afflitti.»
Dick Van Dyke nel suo omaggio funebre a Stan Laurel
Cimitero di Forest Lawn, febbraio 1965
(riportato in Triste, Solitario Y Final, di Osvaldo Soriano)
Stan and Ollie suona più o meno come Stanlio e Ollio. Il pubblico italiano conosce con questi nomignoli il celebre duo comico statunitense (Stanley Laurel, in verità, nacque in Inghilterra e crebbe a Glasgow, e solo in un secondo momento fu naturalizzato come cittadino americano) che, in lingua inglese, è meglio noto come Laurel e Hardy.
La ragione della scelta del titolo, con i nomi propri, una loro versione affettuosa per di più, tanto che Hardy sarà spesso appellato, nel corso della narrazione, anche col soprannome di Babe, ci è chiara fin dalla prima inquadratura del film dello scozzese Jon S. Baird. All’apice del successo – l’incipit è collocato infatti nel 1937 e i due attori sono ancora sotto contratto con Hal Roach – la coppia discute in camerino di donne, sposate e abbandonate con una certa leggerezza, e vizi. Nello specchio, contornato da lucette, dell’uno, lo spettatore può scorgere il riflesso dell’altro: una dichiarazione di intenti, in buona sostanza.
Non puoi avere Ollio senza Stanlio, dice Laurel a Roach che si rifiuta di aumentargli il cachet nonostante i lauti incassi. E se la cronaca cinematografica, seppure per un piccolissimo contrattempo con un’elefantessa (stiamo parlando di Zenobia, conosciuto anche come Ollio sposo mattacchione) sembrerebbe averlo smentito, la realtà dei fatti ci presenta un’indissolubilità che è tanto artistica quanto, soprattutto, umana. Non di rado avviene una vera e propria fusione tra queste due istanze; ciò consente al regista, fra le altre cose, di far giocare i suoi protagonisti sul palcoscenico e nel mondo, che i due concetti convergano in uno solo, come proclamava Jaques (l’uomo che voleva farsi fool), o meno.
Il fulcro del lavoro di Baird, scritto da Jeff Pope, sulla base del romanzo del 1993 di Marriot, Laurel & Hardy: The British Tours, non si situa tuttavia allo zenit della popolarità, ma al suo nadir. Una didascalia ci informa ben presto che ci troviamo nel 1953 e che i successi dei due comici sono ormai poco più che un tiepido ricordo. Il regista evita il biografismo apologetico, quello che aveva reso mediocre, al di là della superlativa prova di Robert Downey Jr., Chaplin, diretto da Richard Attenborough, ma non indugia neppure in una sorta di sterile epica degli sconfitti, nella riproposizione stanca di quel viale del tramonto che, da Norma Desmond in poi, è diventato un topos della narrazione per immagini; in molti lo hanno già percorso, con maggiore o minore senso di ineluttabilità. Usa piuttosto ciò che ha, il cinema, e riplasma la storia secondo una visione che coglie il comico con tutto il suo portato di amarezza: «Il riso nasce come questa spuma: segnala all’esterno della vita sociale le rivolte superficiali e ne disegna immediatamente la mobile forma; è anch’esso una spuma a base di sale; e come la spuma scintilla. Il filosofo che ne raccoglie per assaggiarla trova talvolta una gran dose d’amarezza in così esigua sostanza» (Henri Bergson, Il riso: Saggio sul significato del comico, Editori Laterza).
Ed è un’illusione dolorosa e lucida – in un secondo momento persino resa palese –, quella cioè di poter realizzare, per il grande schermo, una rilettura della leggenda di Robin Hood, in seguito ai rinnovati successi sui palcoscenici britannici, il fil rouge di questo racconto. L’illusione, esemplificata anche nella dicotomia mito-storia vera, proprio con riferimento al ladro gentiluomo, insieme al tema del rispecchiamento, è in fondo anche una delle strategie con le quali si esplica il meccanismo del comico, che richiede un surplus di sospensione dell’incredulità per poter funzionare in modo compiuto. La gag, dunque, ci mostra l’artificio tecnico ed è ripetibile all’infinito, conservando la sua vis di ilarità (e ci par poco, in quest’epoca di spoilerfobia!).
Baird, senza virtuosismi, ma con mestiere, usa il mezzo anche per accennare a un ragionamento che riguarda la contaminazione emotiva del dato percettivo, vitale anch’essa per la comprensione di una semantica della comicità: se il primo ostello inglese nel quale Laurel e Hardy sono costretti ad alloggiare ci sembra schiacciato, simile a una quinta teatrale, il prestigioso Hotel Savoy si erge con una volumetria grandangolare, profonda. È lo spazio di una rinnovata realizzazione professionale, costata cene di gala e ospitate promozionali (in termini – orrendi – contemporanei si direbbe un restyling del personal branding); costata, soprattutto, una momentanea perdita di reale “identità”, qualunque cosa il vocabolo significhi per gli attori, paradossi viventi, costretti a indossare e svestire i propri panni in un unicum che rischia di sfiorare la psicosi. Il conflitto conseguente si ricompone nel nome di un rapporto che è intimo, quasi coniugale (dolce ed emblematica la scena in cui Laurel si infila sotto le coperte con l’amico convalescente) e non viola l’assunto di partenza: non si dà Stanlio senza Ollio, e viceversa. Ogni tentativo contrario di Bernard Delfont, impresario teatrale fra i più noti della Gran Bretagna, risulta una toppa posticcia, impraticabile.
Nonostante i problemi di salute di Hardy (l’attore morirà nel 1957), al duo (e a noi) è regalata così una chiusa struggente: Stan e Ollie hanno adesso, in modo compiuto e riconoscibile, un pubblico duplice, quello intradiegetico, seduto a teatro, e quello cinematografico, distante nel tempo e nello spazio, invisibile per statuto, non solo per un gioco di luci. Il primo, che manifesta il proprio apprezzamento con lo scroscio di applausi, vedrà il risultato del numero, la sua perfetta riuscita, non sapendo che si tratta di un commiato, il secondo assisterà alla danza di due ombre, l’illusione necessaria, di nuovo, e a un’uscita di scena che ricorda – per mano e di spalle – quella di Charlot e della monella in Tempi moderni.
Il fondale immaginifico di una strada di cui non si riesce a scorgere l’orizzonte potrebbe allora allontanare la morte per un tempo indefinito, relegarla a un fuori scena che è il suo posto fin dai tempi della tragedia greca. Stan, così simile al Calvero di Luci della ribalta nella mimica – nella maschera – di Steve Coogan, meraviglioso, e Ollie posseggono la massima grandezza dei veri comici, ciò che li avvicina all’onnipotenza degli dei: la consapevolezza che non c’è più nulla da ridere e voler continuare a farlo lo stesso, proprio per questo. Perché possono cedere gli uomini, nella loro materialità, ma non il sogno (della cui sostanza siamo fatti…): «Il riso […] È qualcosa come la logica del sogno, ma d’un sogno che non venga abbandonato al capriccio della fantasia individuale, bensì sia il sogno sognato dalla intera società» (Henri Bergson, Il riso: Saggio sul significato del comico).