DISNEY+, Drammatico, Giallo, Recensione

ASSASSINIO A VENEZIA

Titolo OriginaleA Haunting in Venice
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2023
Durata103'
Sceneggiatura
Tratto dal romanzo Poirot e la strage degli innocenti di Agatha Christie
Scenografia

TRAMA

Hercule Poirot si ritira a Venezia. Un giorno, accetta con riluttanza di partecipare a una seduta spiritica, ma quando uno degli ospiti viene assassinato, entra in un mondo inquietante di ombre e segreti.

RECENSIONI

Il polimorfismo shakespeariano avrebbe trovato rappresentazione cinematografica anche senza Kenneth Branagh. Così il contrario: Branagh esiste, cinematograficamente, artisticamente, oltre le trasposizioni del Bardo.
È proprio l’apparente inscindibilità a rendere la misura del distacco: l’immaginario di Branagh, nel tentativo di metaforizzare la realtà, arricchendola di significati non immanenti, ma proiettati al di fuori della pura visione, ricorda il processo creativo del drammaturgo di Stratford. Shakespeare volteggia fra gli infiniti colori della coscienza umana, fra l’amletica mise en abime dell’io e l’iper-io di Falstaff, scovando in Isabella (Measure for Measure) e Lady Macbeth due ragioni antitetiche di rinnegare il sangue – quale delle due sia la più tragica non ci è dato sapere – e in Faulconbridge il Bastardo (Re Giovanni) e Iago le figure dell’affermazione e della dissolvenza dell’identità. «E io sono io, comunque sia stato concepito», afferma il figlio di Riccardo Cuor di Leone, quando il perfido Don Juan rivelerà piuttosto: «io non posso nascondere quello che sono». E molto, in fondo, si potrebbe aggiungere sull’ipocrisia di Hal e sul tentativo consapevole che Branagh compie, filmicamente parlando, di emendarlo ai nostri occhi, poiché non gli è concesso farlo a quelli del defunto Falstaff. Shakespeare è eterno perché non parla di un uomo, ma dell’uomo, libero artefice di sé stesso, per citare Hegel. Analogamente la ricerca artistica di Kenneth Branagh trova compimento in un’indagine che parte dall’uomo e qui ritorna – insieme a Shakespeare, ma soltanto se tale compagnia giova al suo discorso – in un’esplorazione che non si autolimita entro i confini del senziente. Con la realtà fenomenica, ri-semantizzata e allegorizzata, che si confronta dialetticamente con la ding an sich dell’essenza cinematografica, la riflessione di Branagh si inserisce, a buon titolo, in una sorta di post-umanesimo artistico, complesso e molteplice, tanto nelle forme quanto nei significati.

Kenneth Branagh è per questo, e per mille altre ragioni, interprete e regista singolare, capace di fondere insieme o mescolare, con sapienza, istanze appartenenti a sfere ritenute incompatibili: cosa c’entra un blockbuster – come tale è stata concepita la nuova saga di Poirot – con Shakespeare, da sempre il grande ispiratore, il nume tutelare della sua composita cinematografia? E cosa c’entra ancora, anche se naturalmente sono ben diversi i calibri e diversa è la prossimità temporale, con un film come Oppenheimer, con la riflessione sospesa tra etica, scienza e soprattutto politica di Christopher Nolan? Be’, per esempio, tenendo ferma l’utopia dell’assoluta originalità, una riflessione, anche questa etica, sullo sguardo/sull’atto del guardare. A un certo punto, il personaggio interpretato da Robert Downey Jr. pronuncia una battuta che suona come: l’uomo crede di vedere meglio, stando sotto la luce (amaramente sarcastico, dato che la luce più accecante è quella dell’ordigno nucleare), ma il potere si muove nell’ombra. Al di là di ciò che viene stabilito dalle battute, il paradigma si instaura nella scena dell’incontro conviviale – si fa per dire – con il vaso che impedisce ai commensali di guardarsi in faccia: dal diegetico al simbolico, in poche inquadrature. Branagh, in un certo senso, mette anche qualcosa in più sulla graticola dell’indagine, persino trattando una materia molto meno corposa (in tutti i sensi: si parla qui pure di fantasmi… non di fantasmi di padri, tuttavia!); ci mette il coraggio di guardare, che non è quello dell’eroe, ma quello dell’uomo, piccolo quanto lo è il suo mondo, grande quanto lo è il suo mondo.
Insomma: all’interprete e regista, natio di Belfast, non devono importare critiche e sberleffi, ed il suo cinema, che di certo non è sperimentale, continua tuttavia ad amalgamare alto e basso senza soluzione di continuità, sperimentando, eh sì, con i linguaggi e i generi più disparati, senza paura di sporcarsi le mani con ciò che è (o sembra) popolare. Non è il primo a farlo, ovvio. Qualche secolo or sono, ci si era messo persino un tale… William Shakespeare. Appunto.

Del resto, l’impulso che muove Sir Ken era chiaro fini dagli esordi, ed è un impulso che potremmo azzardarci a definire incosciente, come fu irresponsabile, a essere gentili, l’idea di precipitarsi giù con gli sci da Bear Mountain, poco fuori Los Angeles, a ridosso delle riprese di L’altro delitto, interessante film a cui l’incursione lagunare di Assassinio a Venezia assomiglia per più di una ragione. La prima, fra tutte, o almeno a mio avviso la più rilevante, più ancora dell’aspetto strettamente – perché poi lo è sempre in modo tangente – soprannaturale, è il gioco con la maschera, debitrice alla tradizione veneziana della commedia dell’arte e utilizzata pure in Much Ado About Nothing. Con accezione simile, il giardino delle api, luogo di incontro prediletto tra madre e figlia, potrebbe apparire come una fusione sinistra tra un Eden idilliaco, il taumaturgico secret garden e il labirinto, di kubrickiana memoria, nel quale si muovono Benedetto e Beatrice, tra le colline del Chiantishire, scelte per ambientare Molto rumore per nulla. Un labirinto che dall’esterno si spinge fino alle stanze dell’antica villa maledetta di Rowena Drake, quasi si trattasse di una mera proiezione psichica che rimanda – di nuovo – al pavimento a scacchiera della versione branaghiana di Hamlet o alla dimora dello scrittore in Sleuth.
Per la sua discesa libera sulle cime statunitensi, a cui accennavamo poco fa, Branagh non scelse, sia mai, la pista per principianti, quale lui era. Preferì una seggiovia che si avviava verso quella per sciatori esperti. Poco dopo, si ritrovò in cima alla vetta più scoscesa, con solo una possibilità di tornare giù: imboccare la via più pericolosa e traumatica. Non prese in considerazione nemmeno per un attimo l’idea di cominciare dalla pista più agevole; si era immaginato di poter imparare ciò che gli serviva direttamente con gli scarponi ancorati agli sci, precipitando da Bear Mountain a tutta velocità: «Non avevo mai sciato prima di allora, e mi scapicollavo giù per la pista, molto, molto velocemente […] C’era qualcosa in me che voleva farlo fino in fondo, la luce sul fondo degli occhi che diceva, più o meno, «Oh, fanculo! Non cadrò!».
In effetti, non cadde. Fuor di metafora, una poetica che nasce da un’esigenza talmente forte da prevedere la possibilità di un rotolamento, in potenza, fatale.

Per la sua terza trasposizione, Branagh, che era stato fin qui piuttosto fedele alla fonte, non accoglie in modo pedissequo il sistema narrativo di Agatha Christie, ma trattiene ciò che gli serve, e non per forza nell’accezione di senso originaria. Assassinio a Venezia è infatti soltanto ispirato al noto Poirot e la strage degli innocenti (o, per meglio dire, Halloween Party). Diversi l’ambientazione e il casus gialli, diverso, ma affine, più moderno, verrebbe da dire, il ragionamento sul rapporto/conflitto tra verità, verosimiglianza e menzogna. Non c’è una ragazzina chiacchierona che, per una volta, ha riferito ciò che ha visto realmente e paga lo scotto più tragico per questa rivelazione e, allo stesso modo, non ci sono testamenti di zie altolocate e la bramosia dei possibili eredi; ci sono tuttavia la festa di Halloween, assai più inquietante, il frutto proibito – la mela – e la scrittrice di bestseller che richiama – inchioda? – Poirot alle sue responsabilità. Eppure anche quest’ultima è, nella versione filmica, ben distante dal pacioso omologo letterario; non risulta imperdonabile, magari, ma ambigua, sì. Come ambiguo è l’intero impianto immaginifico di questa storia: angolato, deformato, espressionista, proiezione fallace della mente che può pensarsi solo razionale e allo stesso tempo teme di non riuscire nel proprio intento di congruenza, o di non riuscirci più (e che sia questa the question).
Già, ma quali sono le responsabilità reali del geniale investigatore belga, uno per il quale la ragione è stata l’unico metro di giudizio degno di contemplazione? Abbandonarsi alla visione spettrale – amletica? – o credere soltanto a ciò che si può toccare, si può spiegare? Essere o non essere? Non dimentichiamoci che stiamo parlando di un rifugiato – uno sradicato – tema che potrebbe meritare, vista la sua attualità, un approfondimento.
Non si può non ritornare a Shakespeare che sembra non entrarci nulla e alla fine c’entra eccome, non fosse altro che per un veleno che passa da Giulietta a Romeo (ma quest’ultimo è risparmiato dalla dose), separati non dall’odio tra casate, ma da un impulso più lacaniano, quello fagocitante della cosiddetta “madre coccodrillo”.
Sono elencati dei fiori – di campo – nelle ultime battute di Ofelia, prima dell’annegamento (che Amleto non riesce a evitare; che addirittura il suo atteggiamento sprezzante ha favorito?): «There's rosemary, that's for remembrance. Pray you, love, remember. And there is pansies, that's for thoughts […] There's fennel for you, and columbines. There's rue for you, and here's some for me. We may call it herb of grace o' Sundays. O, you must wear your rue with a difference! There's a daisy. I would give you some violets, but they wither'd all when my father died. They say he made a good end.» [1]
E un fiore – una pacificazione con il femminile? – è la chiave di volta che consente a Poirot di decifrare la concatenazione dei delitti.
L’acqua dove i corpi di Ofelia e Alicia affondano, fluttuano, vengono ripescati esanimi, come correlativo oggettivo: per analogia, lo era anche lo specchio davanti al quale l’Amleto di Kenneth Branagh recitava i sui versi più celebri. Essere o non essere, dunque? Avere il coraggio di guardarsi nelle pieghe più sgradevoli o no? Salvare qualcun altro per salvare infine sé stessi oppure annegare, come Narciso, trasportati da un’illusione?
Si parva licet, l’investigatore si pone quesiti amletici e sembra trovare una risposta che calza, almeno per lui: sforzarsi di convivere coi propri fantasmi e perdonare i bambini che si è stati (la maledizione dei bambini, cui si fa cenno, non è altro che un’elaborazione interrotta, fallita), come Leopold Ferrier/Jude Hill – non per nulla il doppio branaghiano di Belfast – forse perdonerà sé stesso per la morte di suo padre; come Amleto non poteva fare perché Amleto li/ci contiene tutti e, a dirla con Oscar Wilde: «se Amleto possiede qualcosa della definitezza di un’opera d’arte, possiede anche tutta l’oscurità che appartiene alla vita. Vi sono tanti Amleti quante malinconie.»

[1] Una traduzione fruibile liberamente, Atto IV, Scena V