Drammatico, Recensione

SNOWDEN

Titolo OriginaleSnowden
NazioneGermania, Francia, U.S.A.
Anno Produzione2016
Durata134'
Tratto dadai libri The Snowden Files di Luke Harding e Time Of The Octupus di Anatoly Kucherena

TRAMA

Ritratto e vicende di Edward Snowden, l’esperto informatico che, dopo anni di lavoro per la CIA e la NSA, nel 2013 rivelò al mondo l’immensa rete di spionaggio digitale ed elettronico delle agenzie governative statunitensi sui cittadini americani e su altri Paesi del mondo.

RECENSIONI

Che Hollywood potesse spalancargli le porte era poco probabile, ma Oliver Stone questo se lo aspettava, e così i capitali per realizzare il suo ultimo film sono infine arrivati soprattutto dall’Europa: Germania e Francia. Premessa fondamentale: a raccontare cinematograficamente Edward Snowden c’era già stato, nel 2014, vincendo l’anno dopo l’Oscar come miglior documentario, Citizenfour di Laura Poitras, girato mentre tutto avveniva, mentre tutto stava cambiando: una camera d’albergo ad Hong Kong nel giugno 2013 e il giovane superesperto informatico che per diversi giorni, alla regista e ai giornalisti Glenn Greenwald e Ewen MacAskill, raccontava tutto quello che sarebbe invece dovuto restare segreto. Fino a che la sua identità non venne a galla. Fino a essere costretto a scappare dai tentativi del suo Paese di acciuffarlo, accusato di aver violato, con effetti mai così vasti nella storia del Paese, i sistemi di sicurezza dell’intelligence. Costretto a scappare fino in Russia, dove tuttora si trova. Un caso planetario, con le dicotomie di “traditore” e “paladino delle libertà individuali” a contenderselo. Lo Snowden di Stone sa da che parte stare, e di Citizenfour fa il suo centro di irradiazione narrativa, portando però il documentario in fiction, affidando il ruolo del whistleblower, l’informatore, la “gola profonda”, a Joseph Gordon-Levitt, con Melissa Leo a interpretare Laura Poitras, e Zachary Quinto e Tom Wilkinson a impersonare rispettivamente Greenwald e MacAskill. I viaggi di Stone a Mosca per incontrare Snowden, l’apporto di Kieran Fitzgerald alla sceneggiatura, basandosi sui libri The Snowden Files del giornalista Luke Harding e Time Of The Octupus di Anatoly Kucherena (l’avvocato russo dell’ex dipendente CIA), hanno contribuito a creare tutto il resto, in un racconto che abbraccia nove anni della storia del protagonista, tra il 2004 e il 2013, durante le amministrazioni di George W. Bush, prima, e di Barack Obama poi.
Ed ecco allora questo giovane convinto di appartenere al miglior Paese del mondo arruolarsi per tentare di arrivare alle Forze Speciali, ma costretto a cercare un altro futuro a causa di un infortunio alle gambe che gli dà consapevolezza della sua inidoneità fisica. E dunque, per quella nazione ancora scossa e ferita dall’11 settembre di pochi anni prima, si può fare altro, servirla in altro modo, in virtù di un talento informatico fuori dal comune che lo porta velocemente a ricoprire ruoli di primo piano per le attività della CIA, grazie alla fiducia che il suo capo (Rhys Ifans) ripone in lui. È sincero, Edward, quando, durante una manifestazione di protesta contro Bush per la guerra in Iraq, a colei che diventerà la sua fidanzata, Lindsay Mills (Shailene Woodley), ragazza liberal, dice che non gli piace criticare il governo.

Pian piano, però, Snowden comincerà a scoprire che quello in cui crede e il suo lavoro sono cose diverse, e sarà proprio il rapporto con Lindsay il territorio del racconto in cui tutto si riverserà, perché è qui – al di là delle meccaniche del thriller, della temporalità sottomessa alle esigenze della narrazione, del montaggio; al di là del crescendo tensivo, della consueta affabulazione effettistica di Stone – che risiede la punteggiatura emotiva e nodale del film, nel cortocircuito tra la vita professionale e quella sentimentale, nel lasciarsi e ritornare poi con lei, nella dedizione profonda, e soffertissima, di lei per lui. Lascia la Cia, Edward, ma continua a far parte di un sistema che tutto controlla: finisce in Giappone, poi nel Maryland, infine alle Hawaii per un azienda vicina alla NSA, altra potentissima agenzia governativa che, insieme a CIA e FBI, si occupa di sicurezza nazionale. Nel frattempo, forse ha smesso di credere che gli Stati Uniti sono il Paese perfetto; le domande della macchina della verità ora lo mettono in crisi, la paura che la vita con Lindsay sia spiata da una webcam, o da chissà quale altro strumento, è sempre più forte. Sa troppe cose, ormai, Edward, e deve condividerle con qualcuno: dalle Hawaii si ritroverà ad Hong Kong…Alla fine è il vero Snowden, in collegamento dalla Russia, a togliere la scena a Joseph Gordon-Levitt e a prendersi gli applausi del pubblico di uno studio televisivo. Film arrivato mentre gli States decidevano se eleggere Hillary Clinton o Donald Trump, con l’amnistia mai giunta da parte di Obama. A Stone interessa mostrare l’enorme rete di controllo che l’intelligence americana ha esteso, scavalcando ampiamente la lotta al terrorismo e penetrando in modo smisurato e capillare nelle vite altrui. Condanna i governanti, il regista, ma questa volta riesce forse a essere meno programmatico e semplicistico, pur nella ideologia piegata alla prospettiva eroica: sembra, cioè, tornare anche a “ragionare” sul racconto. Perché, se chiedergli complessità è troppo, anche quando molte ragioni stanno dalla sua parte, gli va comunque riconosciuta qui una certa efficacia nella resa narrativa rispetto a una materia oggettivamente difficile da plasmare, tra un’infinità di codici e metadati. Congiungendo il tutto con una costruzione dei personaggi che riesce a tradurre meglio il senso e anche la passione di un’opera come Snowden, dando al film la forma più mirabile proprio fra le diramazioni della struttura biopic, negli schemi più canonici del cinema di racconto. E allora, in questa “dramatization of actual events”, come riporta la didascalia che avvia il film, se Joseph Gordon-Levitt e Shailene Woodley, con i loro Edward e Lindsay, sono il vero movimento, capita anche che un Nicolas Cage a cui vengono concesse pochissime scene, una manciata di battute, riesca a restituire tutta l’esistenza di un mentore marginale. Alla fine ha vinto anche lui.

Oliver Stone continua a raccontare di giovani idealisti frustrati dall’esperienza, a interrogarsi sulla natura del patriota e a prendere posizione contro i poteri forti: con una storia vera e non ancora “conclusa” (nelle ultime battute a Mosca, Stone sostituisce Joseph Gordon-Levitt con il vero Snowden), si documenta ma legge le carte con il filtro di una democrazia sognata. Con maggiore sobrietà linguistica (figurativa, di montaggio) rispetto ai suoi standard, irrora il film di verbosità che va a scapito della già precaria mancanza di focus della sceneggiatura: è come se l’autore, riferendosi a platee americane “informate” (o solo a se stesso), alla fine dimenticasse di dare precedenza alla nervatura del racconto (cosa sta facendo di male la NSA, cosa matura in Snowden per dissociarsi), perdendosi nei rivoli di rivelazioni frammentarie e non sempre comprensibili, appesantito da una struttura che gioca ad andare avanti e indietro nel tempo. Se l’argomento “sorveglianza totale” non è più una novità, del film non resta che il fiume di parole non propedeutico alla complessità del saggio e un’eccedente rilevanza data alla relazione sentimentale, che fa il paio con i violini sul pistolotto finale (l’uomo comune può ricordare alle istituzioni i propri errori) per essere commerciale. Con argomento simile funziona meglio, nell’alternare film di denuncia, analisi, informazione e spettacolo, Il Quinto Potere di Bill Condon: ma solo Stone sa sfornare un brano di cinema geniale come quello in cui Rhys Ifans (con personaggio del tutto inventato e cognome che richiama 1984 di Orwell) è su maxischermo in primissimo piano per sovrastare il piccolo Snowden. Co-protagonista, interpretata da Melissa Leo, quella Laura Pitras che vinse l’Oscar filmando il documentario Citizenfour.