TRAMA
Tre antieroi prestano i loro servizi a favore del gentil sesso, che a Sin City tanto gentile non è…
RECENSIONI
Diretto quasi a quattro mani, come recitano i titoli di testa, con lo scopo di non tradire lo spirito dell’autore del graphic novel da cui è tratto, Sin City è la scintillante celebrazione della vittoria della forma sulla sostanza. In un argenteo e stilizzato bianco e nero, realizzato quasi esclusivamente su green screen (à la Lucas, per intenderci) e macchiato qua e là di colori quasi simbolici, questo ipertrofico fumetto animato è l’apoteosi dell’estetica del badass, portata a livelli che Tarantino, guest director, ha solo sfiorato. Il poliziotto debole di cuore (Bruce Willis), il rubacuori dalla mente ottenebrata (Clive Owen), il fuorilegge dal cuore d’oro (Mickey Rourke) hanno tutti a che fare con numerose, avvenenti, e lascive fanciulle che, ovviamente, sono loro muse e ispirazione. Il cast è stellare quanto l’azione e lo spargimento di sangue: le starlette poco più che adolescenti e appropriatamente poco vestite si sprecano, e i loro nomi si sovrappongono quasi quanto le loro biografie e i la loro generale inattitudine alla recitazione. In generale, la performance di un po’ tutto il cast cala vertiginosamente di livello quando viene a mancare il set, l’ambiente fisico reale, ed un computer supplisce indegnamente al compianto defunto. Bruce Willis e Michael Madsen riescono ad essere imbarazzanti nelle loro scene in coppia, Benicio del Toro sembra strangolato dal make-up, e Clive Owen è irresponsabilmente fuori parte. Forse è per questo che svetta su tutti il dinosauro, il sopravvissuto, il sempre perdente Mickey Rourke. La sua voce fuori campo è grave, pastosa, densa, ingrigita dalle mille sigarette, le sue battute sono quasi biascicate. Da brivido. La sua performance è straordinaria, con quelle protesi che lo fanno sembrare ancora più se stesso, con due strati di faccia ricostruita. Rourke sembra tornato il se stesso di Johnny Handsome, di Homeboy, di Angel Heart, il ribelle da quattro soldi sudato e sporco, il James Dean dell’era reganiana. Sin City celebra la vittoria dei caduti e si incarna nell’attore più sopra le righe di tutti, al tempo stesso surreale e corporale, con quei muscoli gonfi ed invecchiati e quella canottiera lisa che sembra cucita alla sua pelle.
Veloce, divertente e pieno di difetti, Sin City resiste ogni definizione, schiva ogni categorizzazione legata ai canoni classici, e immodestamente si offre al suo pubblico come opera unica e irripetibile. Per fortuna, possiamo aggiungere, anche se un po’ ci dispiace. D’altronde, una volta assaggiato il peccato…
Tre storie intrecciate con uno sfondo in comune: La città del peccato. Un poliziotto dal cuore tenero arrivato alla pensione ma con un’ultima missione da compiere, un criminale brutto e cattivo che deve vendicare la morte dell’unica donna che lo abbia amato, e infine un gruppo di prostitute armate fino ai denti che lottano per sopravvivere alla mafia. Robert Rodriguez trae un nuovo adattamento dai comics da un fortunatissimo fumetto d’autore (Frank Miller è la mente che sta dietro anche a “The return of the Dark Night”: la fonte di Tim Burton per il suo “Batman”).
Rispetto alla moda delle trasposizioni da fumetti di questi ultimi dieci anni (“Blade”, “Daredevil”, “Hulk”) “Sin City” si colloca nella fascia alta del filone, ovvero quella in cui lo strapotere spettacolare dei nuovi effetti speciali digitali è dominato dallo stile degli autori (Tim Burton, Sam Raimi, Bryan Singer).
Sin City è un film espressionista e sperimentale allo stesso tempo. Se il tono narrativo è quello dei film noir anni’40 (nati dalla rielaborazione dell’esperienza espressionista tedesca), l’aspetto formale guarda decisamente al futuro del mezzo cinematografico. Di fronte ad un’opera come quella di Frank Miller, dal successo enorme e dallo stile inconfondibile, Rodriguez ha deciso di mettersi da parte e lasciare emergere dalle immagini il vero volto e il vero spirito dei fumetti di Miller. Dalla scelta di una regia concentrata sulla messa in scena, deriva la rinuncia da parte di Rodriguez dei suoi tipici movimenti di macchina. Abolite le panoramiche mozzafiato la regia si limita al taglio dell’inquadratura e al montaggio. La costruzione paratattica delle sequenze mette in risalto la perfezione della fotografia in bianco e nero, fortemente contrastata, e l’uso espressionista della luce che diventa la vera forza significante e narrativa della vicenda. Se le zone d’ombra dominano figurativamente e simbolicamente l’intero impianto visivo, la luce e soprattutto il bianco scintillante isolano e caricano i dettagli trasformandoli in agenti narrativi e archetipi culturali (le cicatrici dell’eroismo, lo sguardo inafferrabile della follia, il volto itterico del male). I temi dominanti del film sono l’amore e la morte. La morte come figura ciclica e meta finale di ogni esperienza umana, e l’amore come momento forte e unico motore di ogni percorso individuale. Per queste caratteristiche il film partecipa senza dubbio al genere noir, con il quale condivide la morale pessimista e cinica dei protagonisti e il dualismo sentimento/fatalità dei personaggi femminili.
Se lo stile è espressionista e l’iconografia rimanda al revival del noir anni 2000 (“Dark City”, “Sky Captain”), la tecnica con cui è stato realizzato Sin City colloca l’opera nell’ambito del cinema sperimentale. La mente e la mano del regista texano emergono chiaramente a livello delle scelte produttive e realizzative. Rodriguez che gira e monta tutto il materiale da solo, ha ripreso gli attori su schermo verde, e successivamente ha tolto i colori e aggiunto in fase di post-produzione i fondali digitali. Questo gli ha permesso una libertà creativa senza la quale sarebbe stato impossibile trasporre sullo schermo le storie di Miller, ma gli ha anche consentito di poter lavorare con un budget relativamente ridotto e garantirsi comunque un ritorno di utili più che considerevoli (70 milioni di dollari in tre settimane di programmazione negli Stati Uniti). Rodriguez non pretende certo di riscrivere un’opera a fumetti ed è consapevole di aver ridotto al minimo lo scarto linguistico tra i due media. Tutto ciò da una parte gli permette di coinvolgere nell’opera lo stesso Frank Miller che per anni ha negato i diritti della propria opera ai Tycoons hollywoodiani, e dall’altra di concentrarsi sull’aspetto produttivo e tecnico, riuscendo in questo ambito a firmare una vera e propria rivoluzione. Per una volta gli effetti digitali vengono piegati alle esigenze narrative oltre che figurative, attestandosi non solo ai vertici espressivi del cinema fantastico e d’azione, ma dimostrando anche che con grande creatività si può comunque realizzare un film da super incassi e contemporaneamente sperimentare nuove soluzioni dal punto di vista tecnico-linguistico
Quentin Tarantino ha diretto una sequenza dell’episodio delle prostitute guerriere per la cifra simbolica di un dollaro, ricambiando il favore di Rodriguez per “Kill Bill”.