TRAMA
1939: lo scalatore austriaco Heinrich Harrer abbandona la moglie incinta per recarsi in Tibet con una spedizione tedesca e scalare il Nanga Prabat.
RECENSIONI
Ex-pubblicitario con la sindrome della bella immagine, Annaud si vende internazionalmente come regista di kolossal patinati, spettacolari ma con un tocco "autorale" europeo che, nel suo caso, si esaurisce nella scelta di soggetti anomali ed un modo di girare sontuoso che cela la vacanza di concetti. Per il suo apologo pro-Tibet sceglie l'autobiografia (1953) dello scalatore Heinrich Harrer e affida il ruolo principale al divo del momento Brad Pitt, di cui non controlla le smanie di protagonismo, regalandogli (sono proprio gratuiti) lunghi primi piani in cui l'attore gigioneggia goffamente, sprovvisto com'è di un disegno esaustivo del proprio carattere, compromesso (come tutta l'opera) fra le esigenze di "massa" (semplicistiche/politically-correct) e le sfumature di un approccio più complesso. Il racconto ha tutte le carte in regola per impressionare, i paesaggi (è girato fra le Ande e il Canada) e i costumi di Enrico Sabbatini sanno evocare un lato senso di splendore, la pellicola funziona fintanto che lavora sulla componente figurativa e non elabora in terza persona la potenziale commozione, persuasiva in scene meno mediate come quella con gli sguardi invidiosi per la moglie dell'amico, quelle con la rabbia per un'invasione ingiusta (quella della Cina comunista) e sull’amicizia Pitt/Thewlis e Pitt/Kundun. Non appena Annaud accenna ad articolare il discorso, le psicologie ed i dialoghi, l'impalcatura crolla sotto il peso della propria grossolanità: il buddy-buddy movie Pitt/Thewlis prende la mano fra buffonate e sbrigativi ripensamenti; l'intrigante, allegorico percorso di crescita spirituale di Harrer è lasciato a se stesso, il discorso politico diventa casalingo (Paradiso vs. Diavoli Rossi). In sala di montaggio Annaud ha pure tagliato le gambe al senso (tira via sul rapimento da parte dei banditi e sulle motivazioni alla base della rabbia contro il governatore) per favorire l'audience (si sofferma a lungo, al contrario, sulle schermaglie amorose con la sarta). Al Dalai Lama auguriamo la visione, in un cinema tibetano, di un film di montaggio con le immagini da Himalaya di Eric Valli, l'afflato poetico di Kundun di Scorsese e questa maltrattata, generosa trama.