TRAMA
Dal 1926 al 1952, l’evoluzione di Hollywood, compreso il passaggio dal muto al sonoro: la bizzarra Nellie LaRoy, il divo Jack Conrad, l’icona sexy Lady Fay sono travolti dal cambiamento, mentre il messicano Manny è innamorato di Nellie.
RECENSIONI
Come sempre, Damien Chazelle dirige una partitura musicale, qui con brio forsennato a prescindere dalle tragedie ritratte, ritornando anche a La La Land per le melodie inconfondibili di Justin Hurwitz e per la descrizione del rapporto fra Nellie e Manny. Nonostante l’apertura orgiastica (con fenomenale piano sequenza), con ovvi rimandi a Party Selvaggio di Ivory, Il Giorno della Locusta di Schlesinger e Nickelodeon di Bogdanovich, quest’opera nouvelle vaguiana ed imponente (i set Kinoscope: altro piano sequenza esplorativo incredibile) è, prima di tutto, un atto d’amore debordante e travolgente per il Cinema. A Chazelle non interessa citare o rendere riconoscibili i riferimenti (Jack Conrad, ad esempio, è John Gilbert; nella scena dell’orgia c’è Cabaret e “l’incidente” di Fatty) ma dichiarare la sua adorazione per la Settima Arte. Lo fa attraverso il bellissimo personaggio di Brad Pitt, che insiste per tutto il film che il cinema non è un’arte minore, lo fa nel meraviglioso finale in cui monta scene da tanti film iconici e non solo del periodo, lo fa parlando della magia del set, della bravura fatua degli attori e rimarcando che chi ha fatto cinema vivrà per sempre. Traspaiono la passione e l’inventiva nel dare corpo ai personaggi, nel non badare a spese per lo spettacolo felliniano (grandioso e grottesco) e per l’elegia malinconica degli eroi del muto al tramonto (uccisi dal sonoro). Ciò che stupisce di più, però, sono le anomalie per distanziarsi dal meta-cinema ponderoso e rispettoso, preferendo andare sopra le righe e accostare l’impagabile commedia di situazioni e caratteri, con un passo volutamente slabbrato, irriverente e demenziale, alla serietà delle riflessioni meta e dei sentimenti dei caratteri coinvolti. Se quello che importa nella vita è far parte di qualcosa di più grande, che conti, resti e abbia significato, Chazelle ci è riuscito. Margot Robbie travolgente, come il suo personaggio.
GOODNIGHT BABILONIA
Inizia con un party selvaggio il film di Damien Chazelle, e uso questa espressione in omaggio a quel The Wild Party, film di James Ivory del 1975, che, guarda un po’, parlava proprio di una festa orgiastica nella Hollywood di fine anni ‘20 alla vigilia dell’avvento del sonoro. Chazelle, che è un cinefilo attento, sicuramente avrà visto questo film sfortunatissimo, al centro di complicate beghe produttive. Come Ivory, il Nostro entra nella Hollywood dell’epoca dalla porta della libido, della spinta evoluzionistica, mi viene da dire, e in questa stessa chiave va letto il bell’omaggio finale alla storia del cinema, vista come un ciclo di continua evoluzione: nascita, morte e rinascita. La Libido: quando la valley era Babilonia (con l’elefante alla festa si dice Intolerance di Griffith e ovviamente Kenneth Anger - un pensiero ai Taviani di Good Morning Babilonia -), era l’istinto alla (bella) vita che veniva celebrato. Era, del resto, un’epoca di convulsa anarchia quella in cui i set dei film muti venivano montati uno accanto all’altro sulle polverose colline che circondano Los Angeles (un altro film a cui Chazelle di sicuro guarda è Vecchia America - Nickelodeon di Peter Bogdanovich), le comparse erano migliaia e mal pagate, le star brillavano in un firmamento intangibile ai mortali. Era un tempo fatto di dissolutezza, baccanali, viziosità elevata a metodo, con scandali, tragedie e fattacci di cronaca a corredo (Anger ce lo disse - scrisse -). Quello in cui si producevano sogni in celluloide era un Olimpo corrotto fatto di stelle destinate a spegnersi nel buco nero del sonoro (il finale con Robbie che quasi si dissolve nelle tenebre) e nell’affarismo sistematico e industriale dello studio system. È in questo delicato trapasso storico, gli ultimi fuochi, che si delinea il terzetto di figure protagoniste: se Jack Conrad (Brad Pitt) - un’immagine a metà strada tra Douglas Fairbanks e Clark Gable - è attore già arrivato (al capolinea), Nellie La Roy (Margot Robbie, impagabile come sempre), è pronta a tutto per quel successo che ritiene suo di diritto e che, in effetti, di lì a poco otterrà - è nata una stell(in)a -; le fa da controcanto Manuel Torres (Diego Calva) un tuttofare che sogna di diventare qualcuno, un altro personaggio chazelliano che (come Nellie) scala una collina (l’incipit) sognandone la cima.
Il collegamento filmografico è ovviamente con La La Land: se in quest’ultimo, il regista celebrava quella dorata del musical come un’era irripetibile, citandone i modelli, ma contraddicendoli nel presente (nessun lieto fine, dunque; anzi, diciamolo bene, nessun Hollywood ending), allo stesso modo, in Babylon il regista si interessa al passato romantico della fabbrica dei sogni (l’ammicco e il riferimento cinefilo sono sempre in modalità on) per dipingerne una versione realistica e disillusa, dando conto del passaggio della linea d’ombra del cinema hollywoodiano, un tritacarne che arriva alla pubertà dando caduca fama a coloro che ne hanno appetito e, rubatane l’anima, risputandoli in fretta. Dai set caotici dell’infanzia alle esplosioni ormonali (le orge di tutto) dell’adolescenza, dalle prime produzioni in studio della giovinezza al controllo dei sensi e alla cura delle apparenze della maturità: un bagno di civiltà e ipocrisia farà del cinema un’istituzione morale(ggiante). I riferimenti all’oggi sono allora chiarissimi e come in Whiplash e La La Land la storia è impastata di luci e ombre: il Paradiso presuppone l’Inferno (nel finale vi si discende). Fascino e repulsione: è in questo continuo oscillare il punto. Luce e Buio. Ascesa e Caduta. Sogno e Disinganno. Se il cinema regala al popolo emozioni e illusioni, qualcosa che ha un senso e che aiuta a vivere («Quello che faccio significa qualcosa per milioni di persone» dice Jack), se ha un impatto enorme - e su un pubblico di vastità non paragonabile a quella di altre forme di spettacolo -, la magia che crea ha un costo. Umano, stellare: una galassia di divi è destinata a essere spazzata via, se la ricorderanno solo gli studiosi e i festival specializzati.
Babylon lo si è detto strabordante: boh, anche no o, meglio, lo è come può esserlo Chazelle, che se ambisce al film jazz, lo fa a modo suo, cioè sapendo sempre dove sta andando e mimando una jam session che non lo è mai davvero. Anche quando dirige la Grande Confusione della fabbrica dei sogni lo fa nella piena coscienza del virtuosismo che mette in campo e da feticista che non nasconde la sua ossessione. E forse il punto è proprio quello: non si valuta il film, ma solo il confronto con questa idea di affresco che si ha in testa, quel magma di sfrenatezze a cui un Ken Russell arrivava senza sforzo e che a Chazelle - che è molto più legato a una dimensione di verità, pur nell’enfasi farsesca - interessa relativamente. Il discorso, con l’americano, è più maniacale e matematico, se c’è del dionisiaco in Babylon lo si trova in quello che mette in scena, non sicuramente nel modo in cui lo fa. Li senti a ogni inquadratura lo studio, la cura, l’assenza di casualità. Un difetto? No, una caratteristica. Si guardi la fotografia, con quei cieli bianchi, i chiari quasi bruciati, gli interni pieni di ombre: un’immagine che non esalta mai la cornice scenografica, piuttosto la incupisce, la de-glamourizza. Si guardi la bellissima sequenza di Nellie che ripete la scena ciak dopo ciak, una consapevole lotta di resistenza che il regista ingaggia con lo spettatore. Perché, Chazelle (il regista più giovane ad aver vinto l’Oscar: a 32 anni, come non odiarlo?) opera in questo modo, è artista di controllo, ed è così che vuole girare il dark side di Cantando sotto la pioggia: dominandone la storia, imprimendoci il suo marchio, evidenziando la sua cifra. Se l’epoca del muto era quella in cui c’era ancora una libertà e un’improvvisazione - la Settima Arte ancora fluida - l’avvento dello studio system le soffocherà (fino a promulgare un codice). Bisognerà attendere la New Hollywood per ritrovare quella libertà, quel caos creativo: Chazelle celebrando la fine del muto rivendica lo spirito liber(tin)o del periodo, imponendo la sua visione e facendolo in un’era cinematografica, la nostra, in cui Hollywood quella spinta artistica (autoriale, diciamolo) tende sempre più a mortificarla, in cui la produzione di questo tipo di film diventa sempre meno sostenibile. Babylon vuole essere la dimostrazione visibile che quell’idea di cinema può ancora esistere. Ha ragione Giona Nazzaro quando scrive che «Chazelle appartiene alla categoria degli Aronofsky, degli Aster, dei Lowery: i cineasti irritanti. I primi della classe ma gli ultimi che ancora riescono a fare - più o meno - quello che vogliono»: dovremmo compiacerci del fatto che costoro abbiano ancora questa possibilità e che ci riescano così bene.