
TRAMA
A New Orleans un marinaio rimasto senza lavoro viene ingaggiato da un’avvocatessa per ritrovare il padre misteriosamente scomparso. Con il progredire delle ricerche i due si rendono conto di aver a che fare con un gruppo di malviventi che organizza spietate cacce umane.
RECENSIONI
Glissiamo già subito sulla risibilità del titolo italiano di questo film poiché se già Hard Target risulta di per sé sufficientemente ridicolo (ma almeno: a) è comunque sensato e b) è senza dubbio in linea con gran parte dei titoli della filmografia di Woo), Senza tregua assurge a livelli inenarrabili.
Parafrasando proprio uno dei suoi titoli più conosciuti si potrebbe quasi aprire un ipotetico caso “Woo/Off – Due facce di un regista” per questa sua prima prova stelleestrisce: guardando (e riguardando) Hard Target si ha la netta sensazione che lo stile mediante il quale il più famigerato cineasta hongkonghese si era imposto dopo una lunga gavetta di martial-art movies e hard-boiled noir, si sia fatto fiacco stilema da sciorinare davanti agli occhi belluinamente roteanti del pubblico medio americano. Naturalmente in questo reimpasto di sequenze roboanti, di montaggi al fulmicotone fermati da improvvisi ralenti dal sapore peckinpahiano (con l’aggiunta di colombe svolazzanti, marchio di fabbrica oramai conclamato), di incessanti deflagrazioni di oggetti e corpi (non ultimo quello pellicolare) c’è del metodo. Questo sta a significare semplicemente che alla macchina cinema (di) John Woo può succedere che qualche ingranaggio vada logorandosi, ma non potrà mai cessare di essere un cinema come macchina che vede, che produce visione e senso della visione, non potrà mai smettere di essere il cinema come pallottola nel cervello, in cui tutto diviene pura deflagrazione in virtù della quale tutti i sensi, ovvero tutto il sentire che entra in gioco, e tutti i significa(n)ti (diegesi, linguaggi meta-cinematografici, e strategie testuali) deflagrano in un vortice di suoni, immagini, colori. La questione della grammatica cinematografica a dire il vero non è mai stata così pura e rigorosa dai tempi di Leone e Peckinpah (almeno per un certo genere di cinema). Il problema è che utilizzare il fascino tramico della caccia sadica schoedsackiana scegliendo come eroe un Van Damme qualsiasi infarcendo la pellicola di tutti i luoghi comuni più cari alla sua cinematografia (il melò in primis) non basta a fare di Hard Target un buon film. Non parliamo neppure di freschezza e originalità poiché sono elementi sui quali non riteniamo che Woo voglia puntare. Paycheck, Windtalkers, MI-2suggeriscono qualcosa?

John Woo approda negli Stati Uniti grazie a Jean-Claude Van Damme che, visto Hard Boiled (da cui il titolo originale ‘Hard Target’), ha apprezzato le sue doti nel confezionare film d’azione con l’anima. Un imprinting (con Sam Raimi come produttore esecutivo) poco promettente per il regista di Hong Kong, che ha denunciato la minore libertà d’azione e che, per la violenza rappresentata, è stato censurato, s’è visto appioppare un VM17 e ha perso il ‘final cut’. Il risultato finale asseconda la formula del film-spot-divistico, elegiaco della star tutta muscoli ed arti marziali e con l’archetipo ‘macho’ del solitario, invincibile, affascinante (ma gli intermezzi romantici sono quasi assenti). Gli esegeti della poetica di Woo hanno notato (lamentato) anche il taglio meno edificante rispetto ai suoi film precedenti, ma questo non è necessariamente un male: i limiti imposti dalla produzione hanno fatto sì che certi valori (il codice morale, la lealtà nell’amicizia, l’onore nello scontro virile) scaturiscano più sfumati, senza rischiare l’enfasi. La stessa sceneggiatura, con un’idea di base rubata a Richard Connell (La Pericolosa Partita), accenna a temi più “sofisticati” senza essere pedante: il gusto ancestrale della caccia e lo sradicamento dei senzatetto (tocco di classe: l’afroamericano che si lascia uccidere, rifiutato dai suoi simili). I mezzi (tecnici e di denaro) hollywoodiani, poi, esaltano l’occhio cinematografico del regista, facendo sì che, davvero, la sua macchina da presa (e steadicam) sia in continuo movimento danzante: sparatorie e duelli sono girati e montati magistralmente, coreografie più che scontri armati, al servizio di un virtuosismo che è in continuo equilibrio fra meraviglia ed esagerazione fuori luogo, con esplosioni, cadute, piroette mirabolanti, dettagli sulle traiettorie delle frecce, ralenti che sottolineano violenza ed epica, effetti sonori e fermi immagine. Lance Henriksen conferma che più temibile è il nemico più grande è la vittoria, Yancy Butler ha uno sguardo che strega, il serpente è di gomma e si vede, le due sequenze più belle (la pistola che spara attraverso l’occhiello della porta, il barilotto fatto esplodere a mezz’aria) hanno, come contraltare, qualche scena telefonata e quella della bomba finale da disinnescare (anziché scagliarla via in fretta, con il poco tempo a disposizione).
