TRAMA
Lisa, nell’attesa del volo per Miami, incontra un ragazzo gentile e carino. Suonerà banale ma lui non è quello che sembra.
RECENSIONI
"La paura prende il volo" recita la frase di lancio del film, peccato che dopo una prima parte compatta e ben condotta, l'intelligenza faccia altrettanto.
Wes Craven ha diretto veri e propri cult come "L'ultima casa a sinistra" e "Le colline hanno gli occhi" (forse un tantino sopravvalutati ma bisogna collocarli temporalmente per capirne il valore), ha inventato il mitico Freddy Kruger e rivitalizzato il genere horror insieme a Kevin Williamson strizzando l'occhio al cinefilo con la saga di "Scream", ma pur essendo stato in grado di cogliere un sentire contemporaneo incidendo sul lato oscuro dell'immaginario collettivo, non si è mai distinto per la raffinatezza del suo cinema. In molte delle sue opere, infatti, anche quelle più famose e celebrate, finisce tutto per risolversi in un poco fantasioso scontro fisico (succede in "Nightmare", ma anche la trilogia di "Scream" conta botte al cattivo mascherato degne di uno spaghetti-western con Bud Spencer e Terence Hill). Accade, purtroppo, anche in "Red Eye", e in modo ancora più maldestro, perché tutta la tensione accumulata ad alta quota sfocia in una improponibile resa dei conti a suon di sberloni, in cui la fisicità dei personaggi perde la connotazione umana per assumere la stridente, dato il genere, mollezza dei cartoni animati. Per fortuna Wes Craven ha mestiere e la costruzione dell'antefatto, grazie al cielo parte integrante del racconto, gioca con efficacia sull'unità di luogo (un aereo a novemila metri da terra) attraverso un incalzare di trovate disseminate con il giusto ritmo. Il vis a vis tra i due protagonisti, complice anche l'espressività degli interpreti (i sempre più in ascesa Rachel McAdams e Cillian Murphy), si lascia quindi gustare senza tempi morti in un crescendo di tensione che limita gli interrogativi al "qui ed ora", e riesce nel non così scontato intento di intrattenere. È nel momento in cui l'azione si sposta a terra che la sceneggiatura si perde completamente e il mestiere di Craven non basta per supportare il vuoto di idee che si viene a creare. Si dice che il finale di un film incida molto sul grado di soddisfazione complessivo di una pellicola, forse perché è l'ultima cosa che si ricorda mentre si esce dal cinema. A sentire dagli improperi che volavano in sala al riaccendersi delle luci, a "Red eye" non gioverà di sicuro il passaparola. Il problema è che il pubblico, soprattutto davanti ai pubblicizzati prodotti d'oltreoceano, si sente sempre più ingannato dal marketing, con trailer suadenti che giocano sulla forza di un'idea accattivante sviluppata poi in modo becero. Inutile sottolineare come tutto ciò crei disaffezione alla sala e riduca il già scarso appeal del cinema agli occhi degli spettatori paganti (non poco, tra l'altro). Se nel breve periodo un moderato recupero economico è assicurato, il continuo sottovalutare il pubblico potrebbe portare la già evidente crisi ad un punto di non ritorno. Si attende quindi con un certo scetticismo l'imminente arrivo di Jodie Foster in un altro thriller ambientato tra i cieli, sperando che la paura possa, se non prendere il volo, almeno evitare di cadere a picco.
Wes Craven, ormai, rischia di rimanere invischiato nella metatrappola che si ¨¨ costruito con le sue mani. E¡¯ inevitabile, dopo la serie Screamadelica. Comincia il film, via alla caccia: al rimando, alla citazione, all'autocitazione, all'ironia, all'autoironia, all'affiorare (o irrompere) del Genere nella sua forma pi¨´ pura, isolabile e classificabile. La caccia inizia addirittura a monte, prima dei titoli di testa, ché la sceneggiatura del film tradunt ispirarsi a quella di Phone Boot (In linea con l'assassino) a sua volta di discendenza hitchcockiana[1]: ci sarà mica da ripassarsi Hitchcock, stavolta? Col senno di fine film no, dato che in Red Eye sembra esserci ben poco Hitchcock, a cominciare dall'abbondanza di sorprese a scapito della suspense[2]. E allora, dove si va a parare? Forse nel citazionismo sparso... un po' di commedia sentimentale, un po' di Airport ¡ú Airplane... ma ¨¨ ancora poco. Vai a vedere che trattasi di normale thriller non privo di efficacia e di un barlume, massì, di originalità? Può anche darsi. Sospendendo la caccia e lasciandosi, come dire, "prendere", si nota che in effetti il film pare solido, ben recitato, con una scrittura che bada agli effetti (la tensione non deve calare mai) e poco alle cause (l'attentato/motivo portante della vicenda sa tanto di... ehm¡... MacGuffin). Poi però eccoci alla svolta (semi)horror, d'altra parte Wes Craven è sempre Wes Craven: una penna infilata nella trachea, un assassino ansimante e inarrestabile, un inseguimento "casalingo" da bignami dello slasher; è spuntata l'autocitazione? Sto forse guardando una strizzatina d'occhio a Scream, con tutto quello che questo significa[3]? Non si fa in tempo far mente locale che arriva il limpido happy end: e che tipo di lieto fine sarà, dunque, quello di certo horror anni '80 (ma finivano bene gli horror anni '80?) o quello dei thriller hollywoodiani[4] più innocui e concilianti? Nella seconda ipotesi, è o fa il lieto fine di un thriller holywoodiano innocuo e conciliante[5]? Ma soprattutto: Wes Craven la trappola l'ha costruita involontariamente per sé o intenzionalmente per i suoi spettatori pretesi "consapevoli"?
A proposito di CURSED ho già parlato di Wes Craven in termini lusinghieri: lo spirito giocherellone ed eternamente freak, la mano da maestro, la chirurgia nel tessere una macchina citazionistica divertente ma non ingombrante, la capacità di rinnovarsi continuamente con una strizzata d’occhio al suo pubblico. Ma RED EYE mi costringe all’abiura: trattandosi ad un tempo di thriller psicologico post 11 Settembre (la paura di volare, e chi altri?) e film di tensione in uno spazio chiuso (il regista afferma di essersi ispirato a IN LINEA CON L’ASSASSINO di Joel Schumacher), già si presenta come prodotto molto diverso dallo standard dell’autore. Per la lunga prima parte (dalla premessa all’azione) l’opera, se non in piena forma, è perlomeno forma di vita: servendosi della giovane coppia d’attori perfetta per il ruolo (un classico), si seminano le dovute premesse annacquando i rapporti famigliari con vivida ironia (l’iperbolica preoccupazione del padre di Lisa per la figlia) e mostrando il rischio, nel gioco (giogo?) delle relazioni sociali, di restare intrappolati nel ruolo per sé ritagliato (l’eccessiva cortesia della protagonista). RED EYE, titolo ingiustificabile che non intrattiene alcun rapporto con il narrato, muore però nel momento stesso in cui timbra la carta d’imbarco; il genere del “film in aereo” reggerebbe pure, con la sua simpatica e garbata galleria di caratteri (comprendente tutti: dalla vecchia alla bambina), ma lo schema è davvero troppo nudo, ripetitivo, impantanato su sé stesso. I due protagonisti, ingaggiando un duello (non solo) psicologico, sono macchiette nel cuore (il sicario bello e tenebroso, la donna emancipata con una tragedia nel passato) ma questo in Craven non sarebbe una novità: il fatto è che qui non c’è il soffio d’ironia a stemperare l’angosciosa serietà dello script (dove Ellsworth sostituisce il fido Williamson), neanche un alito di vento, calma piatta. Così, dopo aver regalato l’unica scena cult della serata (ingredienti una penna ed una giugulare, il resto si può immaginare) la creatura si scava la fossa con un finale di incommensurabile pochezza: gli eventi si succedono meccanici, talvolta ridicoli, Craven appare sempre in procinto di girare la sequenza azzeccata, di imboccare la battuta fulminante ma resta col colpo in canna fino a quando il fallimento, ormai, è sotto gli occhi (rossi?) di tutti. Nella lunga sequenza di un uomo e una donna che “fanno a botte” (letteralmente) si palesa il vuoto creativo di RED EYE, il suo girare intorno alla questione senza possedere un’idea che sia una, la pericolosa tendenza del regista ad incartarsi in un prodotto infiocchettato per il mercato mondiale, thriller medio e mediamente brutto. Il padre di Freddy Krueger rimane impigliato in un limbo, se continuare il metahorror che ha portato fama (per lui) e fame (per noi, ma di ben altre pietanze) o se approdare alla reincarnazione totale, azzerarsi e costruire qualcosa di realmente nuovo per poter dire che ce l’ha fatta un’altra volta. Nel frattempo né l’uno né l’altro: nel film di Craven, paradossalmente, è proprio Craven che manca.
[Where's Wes?] Innanzitutto, come prima indicazione sommaria, dobbiamo rinunciare a pensare seguendo lo schema teorico sufficientemente logoro che interpreta il percorso artistico di un autore cinematografico come qualcosa di diagrammizzabile. A volte il cinema, i film, sono pura contingenza, figli del caso o dell'occasione. E lo stile in qualche occorrenza, come quella di Craven, un quid neppure troppo enigmatico, né personale, con buona pace di Benn, svenduto alla fiera della riproducibilità estetica. In questi termini probabilmente ha poco senso gettare il solito sguardo retrospettivo lodando i tempi in cui un cineasta sfornava opere ispiratissime arrabattandosi per procacciarsi il denaro utile all'autoproduzione. Il cinema è co(n)(-)testo.
Sopravvissuto (ma neanche troppo a ben guardare) al maleficio del metalinguismo orrorifico in chiave cinematografica (cosa che non ha ovviamente inventato Craven, ma di cui è divenuto in qualche maniera teorico: da Nightmare a Scream, a Cursed e ritorno) si getta senza paracadute attraverso la maledizione dell' 'occhio che non vede'. E lo schianto è fatale. Con Red Eye, orfano di Williamson, rabbercia ipotesi e traiettorie di una visione che si adagia sulla superficie piatta del senso. La sintassi è corretta ma inutile, non c'è approdo, non c'è testo (inteso come tessitura sensata, come sensata disposizione di forme). Tutto risponde pedissequamente alla convenzionalità più disarmante del thriller in alta quota con il più totale rifiuto di lavorare su spazio (il prolungato prologo della reception e del terminal non conduce a nulla che non sia banale e corriva riflessione sulla miseria routinizzante del vivere contemporaneo), tempo e caratteri. Le recrudescenze e i rigurgiti teorici del post 11 settembre generano una malinconica ilarità che tripudia infelice nella sequenza della matita assassina, e degli sguardi penosamente ansiogeni colti nella più sussiegosa e aritmica topica dei controcampi. Minaccia alla sicurezza di Dio, patria e famiglia. Ancora, ancora e ancora. Immagine banalizzata del politikon, in totale assenza e cura di una politica dell'immagine (vedere alla voce Haneke). Muto e triste epicedio dell'immagine vuota, ma neanche questo. Vuoto di idee, vuoto di senso (insostenibile leggerezza), vuoto di cinema. [Where's Wes?].
[Attribuiamo v(u)oti solo a patto che vengano considerati come inizio di un ineluttabile countdown a schianto già avvenuto]
Thriller sottostimato, dove Craven mostra tutta la sua maestria nel genere: è sempre arduo riuscire a creare tensione solo con i personaggi, i dialoghi e un ambiente chiuso. Il regista, dapprima, maneggia con cura una struttura corale in aeroporto, poi “inganna” lo spettatore con l’incontro quasi romantico dei due protagonisti, lavorando di fino sui dettagli per dipingerli, soprattutto riguardo alla figura di Rachel McAdams, donna dedita al lavoro in modo frenetico che, solo quando si guarda allo specchio in bagno, si concede una sosta per respirare e si “vede” per la prima volta. All’improvviso, l’idillio si trasforma in thriller, e Cillian Murphy, con quello sguardo di ghiaccio, è perfetto per la parte. Infine, le parti si invertono con rivelazioni dal passato e inizia la caccia al topo all’interno di un’abitazione. Topoi del genere che Craven governa bene, con tocchi anche ironici, privilegiando i dettagli significativi, le sorprese (buoni i dialoghi e le idee dello script di Carl Ellsworth) e, soprattutto all’inizio, con un passo frenetico di montaggio, per rispecchiare lo stile di vita di una donna determinata, che non concede agli imprevisti di sopraffarla come è già successo in passato. Il titolo “occhio rosso” si riferisce alla stanchezza degli uomini d’affari sempre in viaggio.