Drammatico, Fantascienza, Recensione, Serie

RAISED BY WOLVES

TRAMA

Nel XXII secolo, due androidi (Madre e Padre), in fuga con degli embrioni umani da una Terra devastata dalla guerra, hanno il compito di crescere bambini umani in un misterioso pianeta (Kepler-22 b). Dopo alcuni anni, solo uno dei bimbi sopravvive e si scopre che sul pianeta sono presenti altri terrestri, anch’essi fuggiti.

RECENSIONI

ALIEN HOMINI LUPUS : RAISED BY WOLVES

“Entreranno fra voi dei lupi rapaci, i quali non risparmieranno il gregge”
Atti 20:29

Come pensare il dis-umano? Se finora l’esistenza è stata concepita sulla Terra, proiettarla altrove è esperienza al di là dell’umano. Fine della vita, fine del mondo, ma anche inizio di una vita altra. L’unica prospettiva di trascendenza, come nelle pubblicità in Blade Runner, è quella di “ricominciare da zero” in una colonia spaziale. False promesse (e premesse) portano a una falsa conclusione: in questa diade fine/inizio, quantunque ci si allontani dall’umano, i suoi sintomi riemergono con maggiore violenza: guerra, dolore, morte. Eppure, la certezza di questo carattere (troppo) umano non è sufficiente ad arrestare il congegno, che si nutre dell’angosciante fame di eternità degli uomini portandoli tuttavia alla rovina. La filosofia del mostruoso di Ridley Scott è ouroboros: circolarità inarrestabile. La fine di tutte le cose ne evoca la genesi.
L’angoscia delle origini impregna già Prometheus e Alien: Covenant, dove il concetto di alieno arriva a coincidere con quello di dio, tramite un perverso gioco di ribaltamenti che è all’origine della creatura xenomorfa apparsa per la prima volta nel lungometraggio del 1979: poiché è infatti David, l’androide (Michael Fassbender), creatura creata, a sperimentare sui passeggeri del Prometheus fino a dar vita alla ‘forma perfetta’, l’alien. Il mostro non è che l’estrema conseguenza dello stesso atto creatore, perché chi crea non può che generare qualcosa che oltrepasserà alle sue intenzioni, che sfuggirà al suo controllo.

Persino a 620 anni luce dalla Terra, morte, dolore, guerra sono sintomi dell’umanità. Raised by wolves, ideata da Aaron Guzikowski ma prodotta dallo stesso Ridley Scott, sembra schernirsi dell’attualità, dei nostri primi e buffi tentativi di scavalcare il più grande impedimento fisico che ci è proprio dalla nascita: quello di non poter che vivere su questo pianeta. Il punto di sutura tra finzione e reale è il pianeta Kepler-22 b (identificato dalla NASA nel 2011). Qui approdano gli androidi Mother (Amanda Collin) e Father (Abubakar Salim) – come se a sopravvivere all’apocalisse non siano state che le generalità dell’uomo, astrazioni bibliche dei due sessi. Il loro scopo è di istallare e preservare una nuova colonia umana, al riparo dalla guerra tra mitraici e atei che ha dilaniato la Terra. Così, ha inizio il gioco dei paradossi. I due androidi sono infatti – a dispetto dei loro nomi – sprovvisti di sesso. Essi incarnano il rimasuglio del concetto di famiglia, depauperato da ogni corporalità. Ai loro antipodi si trovano Mary (Niamh Algar) e Caleb (Travis Fimmel), costretti, per sfuggire ai nemici, ad assumere le fattezze di una coppia di mitraici, Sue e Marcus. Doppio ribaltamento.

Chi sono i wolves? Da un lato, gli stessi androidi che allevano degli umani con un’educazione atea; lupi, perché Mother si rivelerà essere qualcosa di più che una madre, bensì un essere creato (ancora una volta) dai mitraici e riprogrammato da un hacker ateo, con il solo scopo di distruggere: una negromante. Dall’altro, i lupi sono Marcus e Sue che, a capo di un plotone di mitraici, si imbattono nell’accampamento degli androidi e cercano di strappare loro l’unico superstite dei sei bambini, Campion. È in questa occasione che Mother scopre i suoi poteri: è la guerra che provoca la guerra.
Lo sguardo di Guzikowski-Scott è, come in Alien, visuale pura, un’inquadratura neutra, come quella di un Dio che osserva remotamente l’avvicendarsi delle miserie umane. Così, l’atterraggio dei due androidi inaugura la serie con un’implacabilità disumana: semplicemente, accade. RBW è di fatto la meta finale di una gigantomachia che dall’uomo muove all’androide. Non solo, la serie sembra costituire in qualche modo l’inconscio filmico di Scott, poiché riemergono in essa elementi costitutivi della sua poetica. La lotta tra mitraici e atei non rinvia forse alle Crociate? La religione mitraica non rinvia alla Roma del Gladiatore? Ma soprattutto, non è forse da Blade Runner che deriva questa concezione dell’occhio come organo della verità (il Voight-Kampff test per i replicanti)? Perché è proprio dai suoi occhi che Mother trae il potere che la rende una macchina da guerra indistruttibile.

È possibile guardare Raised by wolves senza prestare attenzione agli innumerevoli riferimenti mitologici di cui è disseminato. Altrimenti, ogni cosa vi è simbolo, ogni elemento vive nella duplicità. Lo stesso vero nome di Mother, Lamia, è un essere che nella mitologia greca seduceva uomini per succhiarne il sangue o divorarne i bambini. Lamia, uccidendo con gli occhi, è anche sirena, perché distrugge con il suo urlo. La figura del serpente appare in molteplici forme: come creatura generata da Mother, rinviando all’animale che nell’Eden tenta Eva; ma più potentemente come ouroboros, nella trama stessa delle cose che sono destinate a ripetersi senza una fine. Perché l’arido pianeta Kepler-22 b ha un passato di morte e distruzione che comincia a palesarsi perché, come abbiamo detto, una nuova genesi evoca nell’immaginario scottiano un’antica fine – e viceversa. È dopo aver perso i suoi occhi (Tiresia?), che Mother, tramite visioni allucinate, comincia a comprendere come ciò per cui era stata inviata sul pianeta (salvaguardare la razza umana) ha in realtà l’obiettivo opposto: partorire – lei, androide – un essere mostruoso (ecco il rinvio ad Alien) che adempierà il destino del pianeta, al servizio del dio mitraico e oscuro Sol.