Drammatico

QUANDO SEI NATO NON PUOI PIÙ NASCONDERTI

NazioneItalia/ Francia/ Gran Bretagna/ Olanda
Anno Produzione2005
Durata115'
Tratto dadal romanzo di Maria Pace Ott
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Brescia. Sandro, ragazzino di buona famiglia, cade in mare durante una gita in barca a vela; sarà raccolto da un barcone di immigrati clandestini e…

RECENSIONI

Se Marco Tullio Giordana, in barba a pubblico e critica, voleva presentare un campionario del kitsch cinematografico, se egli ha confezionato un argutissimo joke recuperando tutto lo scibile umano sul trash e dintorni, allora mi arrendo: lui è un genio, cretino il recensore. Perché quello che abbiamo visto nel suo ultimo film, in effetti, non è in alcun modo difendibile: cavalcando sciattamente il bieco stereotipo (lui è di famiglia ricca quindi indossa una Lacoste) QUANDO SEI NATO ristagna nella palude del film a tesi. Niente di male, direbbe qualcuno: ma la sconcertante semplificazione è ovunque (lui acquista la “cattiveria” necessaria per vincere a nuoto dopo aver conosciuto il Male del mondo), l’offensivo pretesto ci divora (a voi la famiglia italiana, tra buonismo e scenate), l’estetica pizza & mandolino ci sfinisce (uno stereo che vomita Eros), la palese inverosimiglianza attenta ai nostri attributi (le Ferrovie dello Stato non hanno segreti per i dodicenni). La mano di Rulli e Petraglia sulla pasticciata sceneggiatura apre una voragine insanabile sull’abisso dell’indecoroso (chiudendosi il film, per pochezza concettuale e realizzativa, in maniera pressoché identica a LE CHIAVI DI CASA di Amelio), confermando i due autori come pionieri della più sfacciata ruffianeria; Giordana, dal canto suo, non guadagna il titolo di regista ma si fa banditore di determinate cause (prima mafia e dopoguerra, adesso immigrazione: who’s next?), plebeo nell’animo, incapace di girare qualcosa di vagamente interessante (l’allucinata sequenza marina, in linea teorica, potrebbe essere tale ma precipita nel nulla) – non basta certo piantare la camera sui clandestini, i loro volti emaciati e sofferti, per conquistare una dignità filmica emigrata altrove. Manca la voglia, la possibilità, la fiducia in un progetto malnato. Né possiamo avallare una teoria ascoltata all’uscita della sala, secondo la quale tali produzioni farebbero riflettere, aprire gli occhi su determinate questioni, e in virtù di questo assolvere la loro inezia cinematografica; da sempre la semplificazione è nemica dell’informazione, il riferimento alla Bossi-Fini è diabolicamente studiato per fare notizia (vedi la mesta passerella a Cannes 2005: missione compiuta), le campane dello stile suonano a morto. Cast di cadaveri lucidati, compreso il peggior bambino mai visto su grande schermo (un Gadola di detestabile saccenza). Ennesimo encefalogramma piatto del “ricco” cinema italiano (le produzioni di nicchia sono sempre più belle, ridotte, spesso sudiste ed introvabili in sala), questo odioso insulto di film è ovviamente finanziato da RaiCinema (e di fatto riverito in un noto ‘programma’ – per così dire – in onda sul servizio pubblico), che quest'anno ha già smerciato bassa bigiotteria (OVUNQUE SEI, LAVORARE CON LENTEZZA) spacciandola per pietre preziose.

Il romanzo popolare è l’autentica vocazione di Giordana. Di tale matrice, i suoi film godono i vantaggi e patiscono i rischi. I vantaggi si possono riassumere nell’immediatezza ed esemplarità della linea narrativa, nel sicuro impatto emotivo, nella drammaturgia orientata in modo spesso risaputo ma di sperimentata efficacia. I limiti si collocano oltre i confini disegnati da tali qualità: incapacità di guardare lontano ed eccessivo schematismo (che si traducono in una costruzione puramente orizzontale della fabula e in personaggi che sono semplici funzioni del racconto), abuso di buoni sentimenti, demagogia e populismo diffusamente erogati. La formula dell’equilibrio, che evita al regista di varcare la soglia del professionismo per addentrarsi nella strada della ciarlataneria, riposa naturalmente nella testa degli dèi. Talvolta, l’indignazione civile, la necessità di ridestare la memoria degli adulti e di raccontare con onestà la storia ai più piccini, l’affetto per un maestro o per un eroe misconosciuto favoriscono opere (Pasolini, un delitto italiano; I cento passi) che ricordano i didascalici ma decorosi film rievocanti alcuni momenti critici della nostra storia; talaltra, la necessità bassamente pedagogico-familistica della committenza può metterci del suo e spingere l’autore a un tremendo e ipertrofico pateracchio (non si sa come né perché consacrato dal festival di Cannes: La meglio gioventù), aggravato dalla presunzione a voler ripercorrere un quarantennio complesso e convulso facendolo convergere a forza e per intero, in tutti i suoi climax, nella strettoia di una vicenda famigliare; assai diversa era stata l’opzione di un autore di spessore come Ettore Scola, che in C’eravamo tanto amati (una pietra miliare della commedia all’italiana e nello stesso tempo, insieme ad Amici miei, la sua pietra tombale) e ne La famiglia era riuscito a rendere la cangiante atmosfera dell’epoca nei suoi riverberi privati, soltanto alludendo ai grandi eventi o ignorandoli del tutto.
Inaspettatamente modesto, Giordana firma oggi un film che si colloca, rispetto al precedente, su un altro pianeta. Innanzitutto, il regista rinuncia alla pretesa di stendere un affresco storico, e dunque può curare la definizione del racconto e lo schizzo dei personaggi senza doversi preoccupare di far loro incrociare tutte le disgrazie nazionali della nostra storia recente: dall’alluvione di Firenze a Capaci a Tangentopoli, con l’ultima parola spettante – ricorderete – ai benestanti radunati in una villa presumibilmente dislocata nei pressi del buen retiro degli intellettuali cazzeggianti di Io ballo da sola. In secondo luogo, anziché spiegarci una mentalità e un modo di vivere Giordana preferisce mostrarceli in azione; ed è scelta vincente perché, se solo se ne concede il tempo, egli è capace di osservare e di ritrarre. Lo sguardo non scende in profondità, ci mancherebbe, ma le concessioni al macchiettismo e alle banalità psicologiche sono stavolta poche (il personaggio del prete e quelli degli scafisti, la rabbia che si trasforma in agonismo), i colpi bassi sono tenuti al minimo sindacale (i genitori affranti dall’erronea supposizione della scomparsa del figlioletto), il meccanico affanno della sceneggiatura (soprattutto nell’ultima parte) non è troppo molesto, e soprattutto il punto di vista adottato è quello stesso del ragazzino protagonista. Questo permette a Giordana di assumere la semplicità e l’altruismo (artatamente costruiti, si capisce; ma funzionano) che bambini e adolescenti talvolta manifestano, quando la vita li espone alla crudezza della realtà; esentandolo nel contempo dalla complessità di ideazione che non possiede. Così, i personaggi dei due ragazzi romeni sono figure certo sfuggenti, ma ciò è in coerenza con la prospettiva dalla quale li osserviamo. Di più, il tema del film non è l’immigrazione – nonostante le dichiarazioni festivaliere di regista e cast – ma la presa di coscienza di un ragazzo. Ecco allora che il cospicuo benessere della propria famiglia è un dato per lui ovvio fintanto che non deve verificarne l’autentica natura (e stortura); e qualche nota dissonante era già presente agli occhi del sensibile giovanotto. Citiamo, per chiarire come si tratti piccole notazioni, efficaci perché non sottolineate da espressioni contrite o da musiche solenni, qualche esempio: la prostituta che non deve gettare lo sguardo sulla famiglia felice, e viene respinta in un altro mondo dal movimento d’un alzacristalli elettrico; la compiaciuta ostentazione della propria ricchezza (tradottasi nell’acquisto di non so quale lussuoso veicolo) da parte del padre, che la sbatte tranquillamente in faccia ai suoi operai senza avvertire quanto di tremendamente sbagliato vi sia in questo; il patetico gallismo del padre e del suo amico – che molto lombardamente si chiama Popi come un cane da salotto – osservato e giudicato in un chiuso silenzio dal figlio; l’ovvio impulso di Sandro, non appena la nave con a bordo un’umanità disperata è stata raccolta dalla nostra Marina, a farsi riconoscere come italiano tracciando così una linea di separazione da quelli che fino ad allora erano stati i suoi compagni.
La stessa linea di separazione che nel mondo, al di fuori di una situazione eccezionale, rende apparentemente insuperabile la distanza fra lui e gli altri; e la vicenda di Sandro può essere letta come un tentativo per superare quella distanza, per annullare ciò che la sua nuova consapevolezza non gli consente di ignorare. Un tentativo gratuito, dettato dall’affetto e dalla solidarietà, che infatti gli adulti sono pronti a irridere, a reprimere, a correggere. Come si può comprendere, il tema è toccante, e le note stonate non sono molte. Se aggiungiamo che il ragazzino protagonista, miracolo!, non piange lacrime ricattatorie ed è molto bravo; che i santini buonisti fanno solo saltuarie comparse; che il film ha il coraggio di non finire in gloria, pur lasciando per onestà aperto lo spiraglio di un semplice, decisivo atto di generosità; si vedrà che le ragioni di soddisfazione, all’interno del genere che abbiamo definito all’inizio, non mancano.