TRAMA
RECENSIONI
Agiografia cinematografica degli ultimi anni del non-santo Michelangelo Merisi, in Arte (rigorosamente, qui, con la maiuscola) Caravaggio, L’ombra di Caravaggio ne mostra luci ma, soprattutto, e per l’appunto, ombre. Ne emerge una personalità chiaroscurale, come i suoi dipinti, incarnata da un Riccardo Scamarcio particolarmente nel ruolo, magnetico, attorno a cui gravita il florilegio di personaggi – in buona parte ritraenti essi stessi figure effettivamente esistite – che con le loro testimonianze restituiscono il carisma di un pittore maledetto e benedetto al contempo, sintesi vivente del connubio fra genio e sregolatezza, devoto fedele ma anche incorreggibile libertino (ricorda un po’, anche nel make up, il conte di Rochester interpretato da Johnny Depp in The Libertine, Laurence Dunmore 2004), inviso alla Santa Inquisizione per via della presunta blasfemia dei suoi dipinti, eppure anche da essa considerato innegabile e forse divino talento.
Michele Placido sceglie qui di enfatizzare i tormenti psicologici dell’artista, il cui primo fascino sta nella sua manifesta, esistenziale eterodossia, quella stessa diversità che, riversata nelle sue opere, getta chiunque le guardi in una sorta di immediata sindrome di Stendhal. Ne fa un pittore moderno ante litteram, costretto alla macchia in seguito a un tragico duello che lo ha visto uccidere il prosseneta Ranuccio Tomassoni, sua sorta di arcinemico, sballottato qua e là in un’Italia timorata di Dio in cerca di asilo nelle dimore di illuminate dinastie nobiliari, a partire dai Colonna a Napoli. Attraverso queste fughe e peripezie possiamo saggiare le crisi dell’artista, ma anche la sua ferrea morale, che gli impedisce di abdicare alla sua visione della cristianità, pur quando questa lo porta a essere considerato pericoloso eretico sobillatore del popolo. Questo dunque è l’elemento che maggiormente interessa a Placido: mostrarci un Caravaggio viveur, amante dei bagordi, ma politicamente incorruttibile. Farne un biopic in cui viene enfatizzato il suo travaglio emotivo, più che esplorare il dettaglio della sua opera o del processo artistico, dato in effetti come conseguenza più che come causa. Dall’altro lato la Chiesa, pietrificata dalla carica eversiva dell’umbratile genio forse anche proprio perché ammirata dalle sue capacità di produrre, mediante i quadri, un nuovo, apocrifo e deviante racconto degli episodi biblici. Una Chiesa in via definitiva infingarda, che con il Caravaggio non riesce a dialogare veramente se non tramite la mediazione provvida del cardinale del Monte, interpretato proprio dallo stesso Placido, una sorta di Donnie Brasco (cfr., naturalmente, il film di Mike Newell del 1997) del clero, inquisitore e inquisito al contempo. Una Chiesa che non si fa scrupoli ad attuare la sua persecuzione anche coi mezzi più scorretti, fino a inviare un’ombra, un emissario che agendo nelle retrovie giunge sino al latitante Caravaggio sfruttando i suoi amici più cari, per alla fine irretirlo.
Ebbene, è in effetti quell’ombra, interpretata da un rigido Louis Garrel, a palesare, forse un po’ didascalicamente, il significato stesso del titolo del film, che comunque rifulge di più ampia polisemia. Perché l’ombra di Caravaggio è prima ancora quella patina nera che ammanta i suoi dipinti così come la sua vita, quel vero immanente che il pittore pretende di poter cogliere solo laddove più crudamente giace il terreno, nei bassifondi e nei rimossi della vita mondana, fra gli affamati, gli umili e gli abbandonati. L’intera vita di Caravaggio sembra essere votata all’ombra, fin dall’inizio del film, in cui si aggira fra i femminielli per le vie napoletane, così come alla più immediata carnalità, traendo dalle proprie relazioni promiscue e dal sangue delle ferite inferte alle prostitute Anna e Lena, nell’infame contesto di un’Italia seicentesca moralmente sudicia, ispirazione per le pitture più sacre.
L’unica luce il pittore la vedrà alla fine del film, osservando il mare dalla grata di un castello diroccato, quasi attonito, prima di andare incontro al suo destino. Così terminerà la sua vita, in circostanze che storicamente, peraltro, hanno dato adito a più di un dibattito. E allo stesso modo terminerà un film che, nell’arco di due ore, ha saputo emozionare e fornire una prospettiva dignitosa, ancorché necessariamente parziale, sulla psicologia di un genio incontrastato, a suo agio nelle grinfie dell’abisso, ma inevitabilmente umano, come dimostrano le sue lacrime (in una scena forse un po’ telefonata, ma comunque toccante) di fronte a Giordano Bruno il quale, con la lingua nella morsa, sbraita coraggiosamente fino alla fine contro il censore ecclesiastico, ch’egli ha più paura di ucciderlo di quanta lui ne abbia di morire.