Commedia

PETE SMALLS IS DEAD

TRAMA

A Hollywood arriva la notizia che il misterioso regista Pete Smalls è morto. Due vecchi amici si recano al funerale, il nano K.C. e lo spiantato e alcolizzato Jack. Il nano è oberato di debiti e si è visto sequestrare il suo cane; per questo deve accettare la proposta di Jack, trovare il film incompiuto del cineasta che vale una fortuna. Inizia un’avventura grottesca e pericolosa, a partire dalla prima scoperta: quello nella bara non sembra il corpo di Pete.

RECENSIONI


La sezione Lezioni di cinema ha ospitato Alexandre Rockwell al Festival di Roma. Attualmente insegnante a New York, il 53enne americano è stato tra le figure più amate del cinema indipendente degli anni Novanta: esploso con In the soup (in italiano Un mare di guai, 1992), ha poi coltivato una produzione molto esigua e sempre ai margini dell’industria hollywoodiana (si ricorda l’episodio di Four Rooms a sua firma). Oscurato in Italia, dove il precedente 13 Moons (2002) non è mai arrivato, Rockwell ha anche tentato un’ideale “internazionale” del cinema indie comparendo in Caro Diario: mentre passeggia “straniero a Roma” con Jennifer Beals, uno scatenato Moretti scende dalla vespa per esaminargli le scarpe. In effetti, nella serata a lui dedicata Rockwell si è confermato tra gli autori americani più colti e cinefili: illustrando la sua formazione, ha citato Cassavetes (Morte di un allibratore cinese è il mio film preferito) e il Fellini de Le notti di Cabiria, ha quindi spiegato la costruzione di un film indipendente. Ricordando la gestazione di In the soup, ha raccontato le mille difficoltà della realizzazione: sempre alla ricerca di fondi, spesso con ingenti debiti e affidato ad attori-amici, è questa una condizione che si è ripetuta spesso nel percorso del cineasta e ha influito sul risultato finale, sia dal punto di vista stilistico (cinema pauperistico e fiero di esserlo) che sostanziale. In questo senso, definendo implicitamente In the soup come opera autobiografica (la storia di un giovane regista che vuole fare un film), Rockwell afferma: Una caratteristica fondamentale dei registi indipendenti è che dentro i film ci mettono sempre la loro vita, anche se sottoforma di allegoria o metafora.


Passando al film, Pete Smalls is dead non dimostra lo stesso carisma dell’autore. Girato in collaborazione con gli studenti della scuola di cinema (Rockwell: E’ stata come una lezione), questo conferma pienamente le sue influenze e punti di interesse: c’è una vasta conoscenza del pianeta cinema, soprattutto quello homemade che fa dell’accumulazione una vera scelta stilistica (le note di regia segnalano Kusturica e i Coen, soprattutto Il grande Lebowski aggiungiamo noi). C’è un intricato tessuto di rimandi e citazioni, fin dalla situazione di partenza che indica il deus ex machina come dead, il morto all’inizio come incipit dell’azione, esattamente come Dillinger is dead, la battuta Dick Laurent is dead ecc. C’è un omaggio sincero al pulp, declinato nell’archetipo del “pasticcio” da sciogliere – tutto il film non è altro che questo. E soprattutto c’è un’ipertrofia di personaggi, luoghi e situazioni che da una parte ricorda la lente deformante dei comics (dialoghi veloci, scene stringenti e piene di “roba”, virate nell’assurdo), dall’altra raggruppa una lunga esperienza filmica precedente, come detto indie, la mastica e risputa senza soluzione di continuità. Per Rockwell il centro di tutto è sempre la pellicola, intesa a livello letterale (una bobina al centro della vicenda) come oggetto-valore da recuperare – con la dovuta ironia -, i produttori sono sempre mafiosi dal grilletto facile; il mondo del cinema/set resta ricettacolo di amenità dove, naturalmente, la coppia finzione e inganno regna. Da In the soup, il regista continua a raccontare la stessa storia, impaginata in modo differente: quella di un film che deve essere girato. Il procedimento è implacabile, l’ammucchiata di situazioni è feroce, tutte già viste, esplorate e introiettate. Ribadire sempre la medesima cosa, con l’ostinazione con cui si recita un credo, ovvero l’anarchia narrativa totale e sfacciata, non può che fare simpatia; e allo stesso modo non può che fallire, tra sequenze ripetute e stereotipi pazzeschi, senza organizzazione né logica, con nodi di genere che puntano a un altro livello di lettura (l’autoconsapevolezza) ma non lo raggiungono, subito ammorbanti dopo pochi minuti. Una disfatta inevitabile, forse consapevole, forse necessaria; derivante dalle necessità fisica di far sentire la propria voce, anche solo per “ripetere”: Non sono uno che si arrende. Quindici anni fa c’era più sostegno per questo tipo di spunti artistici, è vero, ma io sono qui oggi e continuerò a fare i miei film (Rockwell). Attori lasciati recitare, secondo l’uso del regista, senza rigido copione davanti alla cinepresa; tra questi è scontato segnalare il “diversamente alto” Peter Dinklage (K.C.) e l’apparizione del rockwelliano Buscemi in un travestimento di immediata, ingenua follia.